Il taglio dei tassi? Se n’è parlato, ma alla fine il direttorio della Bce ha detto di no. Eppure, almeno all’apparenza, i requisiti per la più classica delle manovre monetarie c’erano tutti: una situazione economica in grave deterioramento nell’eurozona; una discesa dell’inflazione sotto la soglia del 2% che, a detta, di Draghi, “non significa deflazione”, ma di sicuro ci si avvicina. Se non ora quando, si potrebbe domandare con accenti biblici. Ma gli argomenti contro questa mossa non mancano. Primo, guai a privarsi di un’arma potente in un anno difficile, dal punto di vista politico. Secondo, i mercati azionari e quelli del debito sovrano vanno a gonfie vele, soprattutto fuori dall’Europa. Un’iniezione di denaro a basso costo, perciò, rischia di arroventare i listini piuttosto che far ripartire le economie.



Il vero problema, ha ripetuto Draghi più volte nel corso della conferenza stampa di Francoforte, è far affluire il credito al sistema produttivo, il vero malato della congiuntura. Il sistema finanziario, abbondantemente innaffiato di quattrini, ha ormai recuperato un’andatura da tempi normali. Prova ne sia che, nonostante lo spavento elettorale, i quattrini del Nord Europa tornano a circolare anche a Sud, almeno per banche e grandi imprese. In questi giorni, subito dopo il voto, Mediobanca ha raccolto due miliardi per estinguere in forma anticipata bond troppo costosi (emessi in periodo critico) in scadenza l’anno prossimo. Prysmian ha fatto il pieno con un’emissione da 300 milioni di bond. Sergio Marchionne ha sapere di essere corteggiato dalle banche per il finanziamento dell’acquisto da parte di Fiat delle azioni Chrysler possedute dal sindacato Usa.



Insomma, il big business di casa nostra non soffre. Al contrario, le Piccole e medie imprese italiane (ma anche spagnole) non trovano credito di sorta. A loro poco importa sapere che il tasso ufficiale di sconto possa ridursi di un quarto di punto: i rubinetti del credito restano chiusi oppure si aprono a tassi stellari, insostenibili di questi tempi.

Draghi è consapevole del problema? Sicuramente sì, ma non può far altro che predicare pazienza. Prima o poi, il circuito della finanza tornerà a funzionare in maniera virtuosa. Ma in Italia, oggi il sistema bancario più fragile d’Europa dopo la pulizia effettuata nelle banche spagnole, sarà prima necessario eliminare le tante partite incagliate o in sofferenza accumulate in questi anni. Certo, i tempi sarebbero assai accorciati se il Bel Paese approvasse le riforme. Anzi, “solo un pacchetto di riforme, unito al consolidamento di bilancio in atto in Italia, è in grado di dare fiducia ai mercati: scenderebbero gli spread, si avrebbero tassi sui prestiti più bassi e quindi più crescita e più creazione di posti di lavoro. È questo il percorso’’. Ma dall’Italia non arrivano segnali positivi. O forse sì, ma gli addetti ai lavori, già impegnati ad assorbire lo shock elettorale, non li vedono.



“Si sono spaventati più i politici e i giornalisti che non i mercati” ha notato divertito Draghi commentando l’esito sui listini della “rivoluzione” elettorale italiana. Nessun giudizio politico, per carità: “È la democrazia, è qualcosache ci sta a cuore e i mercati lo sanno”. L’Italia, aggiunge il governatore interpretando i giudizi delle banche d’affari e delle agenzie di rating, “continuerà con le riforme come se avesse inserito il pilota automatico”.

Ma andrà così o questo giudizio, in stridente contraddizione con le grida bellicose in arrivo dalla Penisola, si rivelerà troppo ottimista? Draghi offre una traccia: “molti sottostimano – nota – la quantità di capitale politico investita nell’euro”, una valutazione che ricorda nello stile il monito lanciato nel luglio scorso contro la speculazione che cercava di affossare l’euro. “Faremo quanto necessario – disse allora – per salvare l’euro. E, credetemi, sarà sufficiente”. Oggi, con altri toni, fa presente che il cammino compiuto dall’euro è ormai irreversibile, piaccia o meno. Messe contro il muro, le singole classi dirigenti nazionali del nostro continente continuano dunque a scegliere l’Europa e l’euro non per idealismo, ma perché hanno paura di se stesse. E l’Italia non fa certo eccezione.

Ma con la paura non si crea sviluppo. Draghi lo sa e tesse, così come un anno fa, la sua tela per correggere l’austerità disegnata dalla Germania. Con la prudenza necessaria in un anno di elezioni oltre Reno (e forse pure da noi). I primi risultati si sono già visti: gli obiettivi di disavanzo pubblico di Spagna e Portogallo sono stati rinviati di un anno, Ora tocca alla Francia e, presto, anche all’Italia, se saprà dotarsi di un governo pronto a sfruttare l’assist. Pensiamoci, anche perché solo le riforme strutturali (e la riduzione delle spese) possono consentire tagli di tasse.

La crisi italiana, per il momento, ha avuto la fortuna di cadere in un momento di mercato molto favorevole che offre grandi opportunità. Molto di più di un taglio dei tassi. A questo punto, ci suggerisce Draghi, l’importante è sfruttare il trend affidandosi alla meccanica di un pilota automatico. Speriamo che nessuno voglia toccare la cloche per vedere l’effetto che fa.

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