In America, ormai, la chiamano “la seconda ondata subprime”. Stiamo parlando della bolla dei prestiti studenteschi, un debito federale da un triliardo di dollari che sta degenerando a velocità sempre più elevata. La stessa Fed, notoriamente dedita al ruolo di pompiere, ha dovuto ammettere che nell’ultimo trimestre il tasso di delinquency, ovvero incapacità di ripagare quel debito, è salito all’11% dal 9% dei tre mesi precedenti, nonostante la stessa Federal Reserve avesse erogato nello stesso periodo prestiti studenteschi per 42 miliardi di dollari, portando il totale a 956 miliardi di dollari (come si nota nel primo grafico a fondo pagina). Ma dati degli ultimissimi giorni parlano di un quadro ancora più nero e di un tasso di default del 13,4% e, soprattutto, di un incancrenirsi della situazione negli ultimi tre anni.



Stando a dati della FICO Labs, la stessa che parametra i rating di credito negli Usa, il tasso di delinquency su prestiti originati tra il 2005 e il 2007 è del 12,4%, mentre per quanto riguarda i prestiti emessi tra il 2010 e il 2012 la percentuale è già del 15,1%, un aumento del tasso di insolvenza di quasi il 22%. Insomma, stante anche il gap che si crea tra dati sulle insolvenze e remittance, la vera banda di oscillazione percentuale è attorno al 20%, il che significa che su 1 triliardo di prestiti studenteschi federali, circa 200 miliardi sono prestiti in default con zero collaterale. E la percentuale continua a salire, rapidamente.



Nel 2005 il debito studentesco medio negli Usa era di 17.233 dollari, mentre nel 2012 è schizzato a 27.253, un aumento del 58% in sette anni. Un dato, oltretutto, in netta controtendenza con altri due indicatori di debito tipici degli americani – il prestito per l’acquisto di auto e quello sulla carta di credito – entrambi calati nel medesimo periodo. Sempre un sondaggio condotto da FICO nel dicembre 2012 intervistando risk managers di molte banche Usa, ci dice che il 60% degli interpellati è certo che le delinquencies cresceranno ancora – e di molto – nei prossimi sei mesi, mentre le insolvenze su altri tipi di prestito sono destinate a calare (come si nota nel secondo grafico a fondo pagine).



Anche perché la statistica parla chiaro: la percentuale totale di popolazione americana con uno o più prestiti scolastici è salita dal 12,1% del 2005 al 19% del 2012 e a fronte di un deleverage sui consumi di vario genere, il settore dei prestiti per studio appare ancora esposto fortemente alla leva, visto che come già detto il debito medio è salito del 58% in sette anni. Per finire, negli Usa l’1% della popolazione ha un debito scolastico o un ammontare di più prestiti scolastici superiore a 100mila dollari!

Chiaro e da pelle d’oca il giudizio finale di FICO, nella persona del capo analista Andrew Jennings: «La situazione è semplicemente insostenibile e stiamo già pagandone le conseguenze. Quando la crescita salariale è lenta e la stessa occupazione non è più quella che conoscevamo, è impossibile per gli individui continuare a sobbarcarsi sempre maggiori prestiti scolastici senza incrementare enormemente il rischio di default. Non c’è alcuna scappatoia, solo la dura realtà».

Una realtà ancor più dura per gli studenti di università prestigiose come Yale, Penn State e la George Washington University, dove i cosiddetti Perkins loans (prestiti indirizzati a studenti con enormi difficoltà finanziarie ed erogati dai college, non dal governo federale) hanno visto salire al 20% la percentuale di default, innescando la fine dell’ennesimo schema Ponzi, ovvero usare i fondi di questi prestiti revolving per finanziare la prossima generazioni di studenti: ma se salgono le delinquencies e i soldi non vengono ripagati, salta il banco. Detto fatto, le tre università hanno fatto causa d ex studenti morosi per un totale di 964 milioni in Perkins loans (dato al 30 giugno 2011) e intendono trascinarli in tribunale per costringerli a pagare.

E tanto per far capire che la situazione rischia davvero di esplodere, sia a livello finanziario che di tenuta dello stesso sistema educativo superiore statunitense, ecco che ci pensa il mercato. La SecondMarketHolding, un’azienda privata di trading, già nota per aver piazzato a cifre folli azioni di Facebook a incauti acquirenti, ha ideato un piattaforma dove i lenders possono emettere securities legate proprio a prestiti scolastici e venderle direttamente agli investitori. Insomma, esattamente il tipo di operazione hedging che si fece con i subprime, quando si shortavano spread di un indice sintetico con calo limitato e upside illimitato. In pratica si shorta il futuro dei figli della patria del libero mercato!

Perché fare questo? Semplice, c’è sempre qualche avido imbecille o qualche furbo speculatore che cerca alto rendimento nel breve, anche se alla SecondMarketHolding giustificano la scelta come «creazione di un mercato richiesto». Insomma, si rischia grosso per guadagnare tanto, un’evoluzione di quanto l’azienda già permetteva ai suoi investitori registrati, i quali dal 2008 a oggi hanno trattato securities legate a prestiti scolastici per un controvalore di 6 miliardi di dollari sulla piattaforma. Si potranno quindi emettere e trattare sia prodotti legati a prestiti studenteschi privati non garantiti dal governo federale, sia i vecchi Federal Family Education Loan Program statali.

La questione è tutta di timing, se infatti chi entra in questo gioco – che equivale a shortare la Fed e la sua politica – ne uscirà in tempo, sarà ricco e salvo. Chi tarderà un secondo soltanto rispetto alla reazione di Ben Bernanke con l’ennesima iniezione monstre di liquidità e resterà con la posizione ribassista aperta sulla bolla studentesca, finirà a spazzare il pavimento di qualche fast food. Con mia somma gioia.

Tutt’intorno, però, un Paese che gioca con il futuro e l’educazione di una generazione intera. Questa è la vera crisi.