Se Pier Luigi Bersani si fosse informato presso il Fondo monetario internazionale e, soprattutto, il Banco americano per lo sviluppo, avrebbe appreso che la teoria dei giochi non è il forte di Stefano Fassina. Forse avrebbe detto “Nessuno è perfetto”, come nell’ultima indimenticabile inquadratura di A qualcuno piace caldo. Ma forse non si sarebbe affidato al suo “consigliere economico” per la strategia da seguire dopo le elezioni. Tanto più che i suoi avversari, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, conoscono a fondo la teoria dei giochi per averla praticata (più che studiata) per anni nel mondo dell’industria e delle arti e delle professioni. Inoltre, il primo ha un supporto in Renato Brunetta che – mi hanno detto studenti che hanno frequentato il suo corso prima di seguire il mio – la teoria dei giochi la spiega molto bene. I parlamentari del secondo sono altamente scolarizzati (l’80% è laureato) e sguazzano come pesci negli “equilibri dinamici alla Nash” e simili algoritmi.
Perché occuparci di teoria dei giochi quando siamo alle prese con “giochi di governo” da cui dipende un Paese sull’orlo di una profonda depressione? Com’è noto, dopo oltre un mese di tentativi inconcludenti di Bersani, il Capo dello Stato lo ha inviato a Piacenza a festeggiare Pasqua e Pasquetta in famiglia, mentre due commissioni definiscono il programma e, tra qualche giorno, qualche altro entrerà a Palazzo Chigi. In effetti, per un mese, Bersani, seguendo i suggerimenti di Fassina (che gli faceva da contrappunto in dichiarazioni e interviste), ha perseguito quello che in teoria dei giochi si chiama “un gioco a ultimatum”: o vinco tutto il piatto secondo il mio “ultimatum” (spezzando il Movimento Cinque Stelle, M5S) o perdo tutto.
Per chi non mastica di economia, si tratta del “gioco” tra Don Giovanni e il Commendatore nel secondo atto della nota opera di Mozart (Pasquale Lucio Scandizzo, Università di Tor Vergata, e Antonio Cognata, Università di Palermo, hanno scritto, dieci anni fa, un bel saggio in materia). Come Don Giovanni, Bersani ha puntato tutto sulla sfida al Commendatore, il quale lo ha portato all’Inferno. Il Pd rischia di seguirlo, trovando collocazione nel dantesco girone dei litigiosi.
Gli altri due contendenti, usciti dalle elezioni, come il Pd, con il 25-30% del voto popolare, hanno compreso che il gioco era molto più complesso e si “giocava” parallelamente su tre tavoli: in uno la posta, era ed è, “la reputazione” di essere un affidabile partner di governo, in un altro la posta era ed è “la popolarità” di aumentarne i numeri di elettori in caso di ritorno alle urne, nel terzo, al Quirinale, la posta era ed è “l’affidabilità” di dare vita a un esecutivo stabile.
In questo quadro, i “giochi a ultimatum” portano inevitabilmente a fare la fine di Don Giovanni nello scontro con il Commendatore. Occorre, invece, essere disposti a trovare un equilibrio, con i partner, tra “reputazione”, “popolarità” e “affidabilità”. È quanto ha fatto il Quirinale togliendo il mazzo di carte a Bersani (anche se da Piacenza giungono “grida” che farà di tutto per riprendersele in mano) e affidando a due gruppi di “saggi” la definizione di un programma sulla cui base formare un “Governo di scopo”.
Come reagiranno i mercati finanziari internazionali, quando domani riapriranno i battenti, a questa nuova situazione? Da un lato, il “gioco” ora è impostato bene e può portare a risultati solidi. Non è più un “ultimatum” lanciato all’universo mondo da chi ha avuto meno del 30% del voto popolare. Ma una ricerca, per tentativi, di un equilibrio dinamico basato su un programma di punti condivisi. È un’innovazione profonda che può piacere ai mercati. Da un altro, può preoccuparli se il duo “Bersani & Fassina” riprende il ritornello dell’ultimatum, sterilizzando l’opera del Quirinale. Tuttavia, il resto del Pd (a rischio di scissione) e, soprattutto, il 70% degli italiani, dispongono di carte per impedirlo.