Ma chi sta sbagliando? Le statistiche che, ogni giorno, piovono da Bruxelles, Roma, Francoforte o dal Fondo monetario internazionale suonano la stessa lugubre sinfonia della recessione. Intanto i mercati finanziari corrono, facendo incetta di titoli governativi e di azioni. Un’apparente contraddizione che, al solito, ha smentito le previsioni degli esperti più improvvisati, che pure imperversano sui media. La logica dei flussi di capitali e, di riflesso, l’andamento delle Borse, dei tassi di interesse e dello spread segue una logica che nulla ha a che vedere con le scelte politiche domestiche. Può capitare (ed è già successo) che i due percorsi si incrocino. Ma non ha alcun senso stabilire un nesso meccanico tra l’azione o le opinioni politiche a breve e la reazione dei mercati.



Semmai occorre cercar di intuire le tendenze che si manifestano dietro i movimenti dei listini. O se preferite scoprire la logica che si manifesta dietro l’apparente follia con cui i mercati reagiscono ai numeri dell’economia reale. La forbice della congiuntura, infatti, è sempre più divaricata. Da una parte si moltiplicano i segnali di ripresa negli Usa. L’ultimo dato, relativo alle richieste di sussidi alla disoccupazione negli Stati Uniti, registra un calo di 42.000 unità a 346.000. Nel frattempo migliora la situazione del mercato immobiliare, da dove cominciò la lunga recessione. Al contrario, il bollettino della Bce, ad esempio, segnala che a fine 2012 il tasso di disoccupazione nell’Eurozona ha continuato a crescere “raggiungendo livelli senza precedenti”. Secondo i dati delle indagini, la disoccupazione ha toccato il 12% a febbraio, un numero che lascia prevedere “un ulteriore calo dei posti di lavoro nel primo trimestre del 2013”. Anche perché la congiuntura sembra volgere al brutto stabile: i ritardi sulle riforme strutturali, continua il bollettino, “pesano e rappresentano un elemento di rischio per la ripresa dell’Eurozona nella seconda metà del 2013”.



Di fronte ai numeri dei senza lavoro in Europa sarebbe facile spiegare un calo dei mercati azionari. Se poi lo sguardo si spinge sull’Italia, le prospettive finanziarie dovrebbero essere catastrofiche o giù di lì: non passa giorno senza che non chiudano i battenti centinaia di imprese; il rapporto debito/Pil, nonostante gli sforzi sopportati, s’avvia a salire al 130%, massimo storico in tempo di pace; i conti sembrano avviati a un percorso virtuoso, ma solo se, ammonisce il ministro uscente Vittorio Grilli, non verrà messa in discussione l’Imu, in barba a tutte le promesse elettorali (anche del premier Mario Monti); sul fronte delle trattative del nuovo governo o del Quirinale regna la nebbia più fitta. In sintesi, è giustificato l’allarme di Olli Rehn, il commissario Ue che ha sollevato il pericolo tangibile di un rischio default dell’Italia, sufficiente da solo a far saltare l’euro. Ma, a giudicare all’andamento dei mercati, non sufficiente a far salire il rendimento dei titoli di Stato italiani o lo spread Btp/Bund, che procede per la sua strada del tutto incurante delle riflessioni di Pier Luigi Bersani o di Silvio Berlusconi.



Perché? La spiegazione più convincente parte da Tokyo. Dopo vent’anni di depressione economica, Tokyo ha deciso di cambiar rotta. Il premier Shinzo Abe ha lanciato un piano che prevede tre pilastri: una robusta reflazione dell’economia attraverso una politica monetaria estremamente aggressiva che, tempo due anni, raddoppierà la base monetaria; una politica fiscale altrettanto robusta, che consentirà il rilancio del Pil a suon di investimenti; riforme strutturali in materia di liberalizzazione, apertura alla concorrenza internazionale e più flessibilità nell’impiego della forza lavoro. Ci vorrà tempo per capire se il piano, nel suo complesso, funzionerà offrendo un esempio virtuoso al resto del mondo, come accadde negli anni Trenta quando il Giappone, tra il 1931 e il 1936, sviluppò una coraggiosa politica espansiva emancipandosi dal gold standard. Una politica keynesiana che non contagiò l’Ovest, anche perché il ministro delle Finanze, deciso a tagliare la spesa in armamenti, venne assassinato dai militari.

Per ora, in attesa di novità strutturali, limitiamoci ad assistere all’enorme operazione di immissione di moneta nell’economia, che amplifica gli effetti del Quantitative Easing americano. Nel giro di pochi giorni, almeno 70 miliardi di dollari sono usciti dallo yen, in via di svalutazione. Una parte di questi soldi vaga per il mondo a caccia di impieghi convenienti, per lo più a breve. La gran parte bussa alla Cina, seriamente preoccupata per il possibile impatto inflazionistico e per le conseguenze della finanza locale, dove spuntano ogni giorno nuove strutture “finanziarie ombra”, capaci di ripetere a Oriente i guai già combinati in Usa ed Europa. Un’altra parte va alla ricerca di buone occasioni speculative. E qual lido migliore dell’Italia, Paese che paga interessi quattro volte superiori al Giappone pur con un deficit primario al netto degli interessi positivo? Quale spiaggia migliore di un Paese ove le imprese scappano o sono pronte a salvare il salvabile? E non c’è un politico che abbia speso una sola parola di fronte alla prospettiva che Telecom Italia, ultimo gestore di tlc a maggioranza italiana, passi sotto il controllo di un colosso di Hog Kong.

Insomma, questa insolita e per certi versi sorprendente primavera della finanza presenta opportunità (poche) e rischi (tanti). Può essere l’occasione per metter mano a strutture proprietarie squilibrate e assetti patrimoniali fragili (in banca, soprattutto). Può essere però anche l’illusione che le scelte di fondo, il secondo e terzo pilastro dell’Abenomics, possano essere rinviate all’infinito, in attesa di soluzioni italiane che non arrivano mai o delle elezioni altrui (il voto tedesco di ottobre, innanzitutto). Al contrario, il rischio è che l’onda dei capitali, come un’alluvione, intacchi i pochi pilastri che reggono, dopo anni di incuria e di mancata manutenzione, l’economia e la società italiana.

Un rischio che, ammonisce giustamente Olli Rhen, minaccia l’intera Ue e non solo: un’Europa in avvitamento strutturale potrebbe creare problemi tali da mettere in discussione la bassa crescita globale che piace tanto ai mercati. E finire per dare ragione a Willem Buiter, l’economista che da tempo continua a ipotizzare per il 2015 ristrutturazioni del debito sovrano (che cresce velocemente anno dopo anno) in non pochi paesi europei. Non solo del sud Europa.