Weimar è una città della Turingia, in Germania, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1919, fu sede di un Congresso nazionale riunito per redigere una nuova Costituzione risultato della sconfitta nella guerra e dei moti sociali della seconda metà del XIX secolo. Quel periodo tra il 1919 e il 1933, anno di ascesa del partito nazionalsocialista, è chiamato Repubblica di Weimar ed è ricordato come un periodo di dramma sociale ed economico che ha consegnato il Paese nelle mani di Hitler.
La Germania smise di pagare alla Francia ciò che era stato imposto per la sua sconfitta in guerra nel 1923, la Francia occupò la Ruhr (regione tedesca ad altissima produttività), gli operai tedeschi entrarono in sciopero, la produzione nazionale crollò, lo Stato continuò a pagare gli stipendi immettendo nuova moneta. Il risultato fu il raggiungere la vetta del processo inflattivo iniziato con l’abbandono della convertibilità aurea del marco nel 1914 e la spesa per l’attività bellica. L’inflazione era superiore al 600% annuo e il Marco, svalutato un milione di milioni di volte, veniva stampato su banconote che avevano un valore sino a centomila miliardi!
Questo ci aiuta a capire perché i pronipoti dei banchieri della Bundesbank hanno la fobia dell’inflazione e perché Weidmann (Governatore della Bundesbank) si sia opposto con tutte le sue forze alla politica estremamente accomodante di Draghi e le sue iniezioni di liquidità nel sistema. A oggi possiamo dire che Weidmann e Angela Merkel sono stati troppo ansiosi perché tutta questa marea di liquidità si è fermata alle banche, non arrivando all’economia reale e quindi lasciando tranquillo l’indice dei prezzi.
La Bce, come la Fed, ha “monetizzato il debito”. Sebbene gli amanti del bull market desideravano e speravano in ulteriori acquisti da parte della banca centrale, sebbene gli amanti del “mi piace vincere facile” speravano addirittura nell’emissione dei bond europei prima di avere una vera unione politica e una unione fiscale europea, gli acquisti dei bond governativi da parte della Bce sono sotto gli occhi di tutti. Annoverando tra gli acquisti della Bce anche quelli operati per mano delle banche grazie ai soldi prestati dall’Eurotower stessa, si arriva a quantità di denaro immesse nel sistema tanto grandi da non essere spesso quantificabili. Solo la seconda tranche del piano di prestiti alle banche a tre anni, chiamato Ltro, ammontava a 500 miliardi di euro. Questo non ha smosso l’inflazione e ha supportato (anche) i titoli governativi tedeschi a prezzi così alti da avere un rendimento minimo (oggi all’1,26% sul 10 anni) che non ripaga neanche lontanamente l’inflazione (con tutta la gioia del Tesoro tedesco che riduce la spesa per gli interessi).
A dare un occhio ai dati macroeconomici Usa e zona euro capiamo che stiamo parlando di due mondi che si allontanano dal cuore della crisi a velocità totalmente diverse. Se poi andiamo a leggere i giornali di qualche giorno fa, dove si parla di Grecia e Cipro, o andiamo a leggere i giornali che usciranno tra qualche mese e che parleranno magari di Slovenia e Italia, capiamo che il tasso di cambio a 1,305 euro per un dollaro non avrebbe ragione di esistere. È invece lì per mano dei lottatori statunitensi che fanno la loro parte in questa guerra dei cambi in atto in tutto il mondo, e che sembra più uno scontro di lotta grecoromana di una lotta tecnologica del XXI secolo, salvo poi dichiarare tutti che “non c’è in atto nessun tentativo di svalutare la propria moneta”, tantomeno per favorire le esportazioni. Gli ultimi arrivati a vedere la propria moneta miracolosamente svalutata sono i giapponesi che hanno immesso uno tsunami di liquidità, che si dichiarano intenzionati a raggiungere e difendere l’obiettivo del 2% di inflazione per gli anni a venire, ma che confermano che “l’azione di politica monetaria non è volta a svalutare lo yen”.
In questo momento di lotta noi europei sembriamo forse i più sprovveduti, perdendo lo scontro e mantenendo il cambio a un livello che probabilmente non possiamo permetterci. Una vera svalutazione della moneta tramite l’aumento dell’inflazione per mano delle banche centrali potrebbe forse mantenere pari l’equilibrio tra i paesi euro ma darci vantaggio competitivo sulle esportazioni. Da Bruxelles sembrano però remare contro e oltre a non lottare con abbastanza forza per indebolire l’euro pensano bene di intavolare la preparazione alla firma di un accordo di libero scambio col Giappone. Non con il Giappone di dieci giorni fa, sia inteso, ma con il Giappone di oggi che ha una moneta svalutata di quasi il 10% contro l’euro.
Tra Giappone ed Ue, siamo proprio noi ad avere le più alte barriere alle importazioni. I giapponesi difendono molto la loro produzione agricola, men che marginale a livello domestico e a livello internazionale. Noi difendiamo la produzione automobilistica facendo pagare un dazio doganale del 10% alle auto e del 22% agli autocarri provenienti dall’Impero del Sol Levante. Libero scambio significa allora che in un futuro prossimo noi potremo esportare il riso Carnaroli del Basso Pavese DOP a Tokio mentre loro venderanno le Toyota a prezzi più bassi alla casalinga di Voghera?
Non mi pare un grande affare. A onor del vero i giapponesi difendono il loro mercato automobilistico imponendo degli standard tecnici molto stringenti e molto diversi da quelli usati in Europa. Questo impone dei costi ai produttori europei che vogliano adattare le proprie macchine ed esportarle. Tutto ciò però non pare sia oggetto di revisione nei piani sul libero scambio, per cui potrebbe tranquillamente rimanere in piedi, per buona pace di chi vorrebbe vedere un giapponese su una Panda.
Sul tema della svalutazione competitiva c’è però una buona notizia per l’Italia: abbiamo una disoccupazione che sta devastando la società, dopo aver già devastato l’economia. La parte positiva è che con la disoccupazione alta è facile che i lavoratori siano disposti ad accettare un salario più basso pur di lavorare. Salari più bassi significa costi di produzione più bassi, prezzi di vendita più bassi e quindi vantaggio nelle esportazioni. Questo fenomeno ci ha portato a essere più competitivi soprattutto nel mercato tra paesi euro: sebbene Germania e Italia abbiano la stessa valuta, i nostri beni sono “svalutati”.
Passiamo ora alle previsioni sui tassi di cambio per i prossimi mesi e anni. Alcuni anni fa, in una conferenza sulle commodities tenuta a Barcellona da una importante banca d’affari inglese, un giovane gestore di fondi pensione italiano chiese al loro capo economista come si sarebbe mosso il cambio euro/dollaro nei mesi successivi. Certo di ricevere un’importante rivelazione vide però l’analista inglese mettere un dito in bocca e poi alzarlo in aria facendo il gesto di uno che sta cercando di capire da dove tira il vento. Capimmo tutti ciò che intendeva dirci.