Durante la caccia alle streghe dei secoli XVI e XVII tutti sapevano, in cuor proprio, che l’origine di tutti i mali non era ascrivibile alle malcapitate creature. Esiste tuttavia un automatismo umano, ben noto agli psicologi con il nome di meccanismo del “capro espiatorio”, che porta a preferire l’individuare “colpevoli” esterni e lontani dalle proprie condotte, dal fare i conti con le nostre colpe individuali e collettive. Deve essere questo il motivo per cui un Paese intero (più di uno invero) ha cominciato a dare la caccia alle strega Merkel quale incarnazione del male che si è abbattuto sull’Europa.
Per carità, le terapie pro-cicliche e recessive propugnate hanno avuto, nel breve, peggiori effetti di una mela avvelenata. Ed è un dato di realtà che la Germania stia letteralmente cannibalizzando i suoi partners europei più in difficoltà. La ragione fondamentale è uno strapotere nel campionato europeo della competitività. Le altre presunte cause sono in realtà effetti, inclusa, secondo i più accreditati e lucidi centri di analisi economica, la crisi dei debiti sovrani, acuita e conclamata proprio da questi evidenti squilibri interni nell’area euro. La Germania nel 2012, anno di domanda mondiale fiacca, ha segnato un surplus commerciale di 188 miliardi di euro, il secondo più alto negli ultimi sessant’anni. L’export ha toccato il record di 1.097 miliardi di euro. Il surplus delle partite correnti, secondo i dati di alcune banche di affari, dovrebbe aver raggiunto il 6,3%, dal 5,6% del 2011 (fonte Il Sole 24 Ore).
Questi dati partono da lontano. Da un mostruoso recupero della forza di penetrazione sui mercati mondiali. Osservando la dinamica di uno dei principali indicatori di competitività internazionale elaborati dall’Ocse, il tasso di cambio effettivo reale basato sui costi del lavoro per unità di prodotto, si riscontra che per paesi come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, c’è stata una costante perdita di competitività dall’introduzione dell’euro. Più grave, tra le altre, la situazione dell’Italia, dove il tasso di cambio effettivo reale si è apprezzato di ben 35 punti percentuali dal varo della moneta unica. Alla fine del 2011 questi numeri erano impressionanti: 10 punti percentuali per il Portogallo, 20 per la Grecia (dato riferito al 2010), 30 e 50 rispettivamente per Spagna e Italia (fonte lavoce.info). È come se la Germania avesse svalutato il suo cambio con l’Italia dal 2001 a oggi del 50%. Risultato, in un area di cambio fisso: è come avere il Real Madrid che gioca in serie B o Varenne che corre coi ciuchi.
Tuttavia tale strapotere non cade dal cielo. Dalla nascita della moneta unica sono state introdotte in Germania profonde riforme, culminate nel 2004 con gli interventi promossi da Schröder sul mercato del lavoro (le cosiddette leggi Hartz III e IV). Riforme che hanno significativamente innalzato la produttività del lavoro (dunque la competitività) e portato quello Stato, un tempo “il malato d’Europa”, a scoppiare oggi di salute. In qualche modo il paradiso finanziario di oggi è stato conquistato a prezzo del purgatorio di ieri. L’Italia ha invece vissuto il suo ingresso nell’euro quale approdo nella “contrada di Bengodi”. Luogo nel quale era possibile far vivere di rendita un Paese piegato dal fardello del debito e che cresceva la metà in media della zona euro (nota area di crescita anemica nel mondo).
Tale colpevole inazione, in un’epoca di profondi rivolgimenti sul piano internazionale che hanno messo il Paese fuori gioco in molti segmenti industriali, ha avuto quale sottofondo, per la gran parte degli ultimi 12 anni (circa 8), il suono gentile del piffero. Perché il non fare o il costruire l’agenda politica secondo ciò che la sondaggista di fiducia addita quali “desiderata” collettivi è stato parte delle strategie per l’acquisizione e la gestione del consenso. Gli interessi arroccati nelle corporazioni non si sono toccati, la spesa corrente è stata fatta crescere a ritmi superiori del Pil (fonte Banca d’Italia), evasione e corruzione non sono state debitamente aggredite (anche culturalmente) quali zavorre sulla crescita del Paese e via discorrendo sul crinale delle scelte “comode”.
Ma si è fatto di peggio. L’ingresso nell’euro ha prodotto risparmi imponenti sulla spesa per interessi sul servizio del debito. Risparmi variamente calcolati e invero con oscillazioni importanti date le variabili in gioco. Quel che però è certo è che siano tali risparmi in parte dovuti al declino generalizzato dei tassi d’interesse del periodo, siano o meno misurabili con esattezza, hanno prodotto economie di spesa dell’ordine di grandezza di molti miliardi di euro per anno (secondo taluni 60 nominali). Se tali risparmi, dal 1996 a oggi fossero stati messi per metà nel salvadanaio dell’abbattimento del debito e per l’altra metà nell’istruzione e nella ricerca, oggi l’Italia, seconda potenza manifatturiera in Europa, guarderebbe la Germania dritta negli occhi.
Tuttavia la favola della strega Merkel continua a fare molta presa. Tale favola fa il paio con l’altra in circolazione della possibilità per l’Italia di tenere politiche unilateralmente espansive (in deficit) con un rapporto debito/Pil al 127% e 75 miliardi di interessi sul debito all’anno. O quella per la quale si possa imporre manu militari alla Germania, con questa architettura istituzionale della zona euro, politiche inflazionistiche o espansive. Uscendo dalle favole, ovviamente il problema esiste e non si identifica con una persona, ma con la pessima ingegneria costruttiva dell’euro. L’euro, se non vuole essere un mero serpente monetario senza banda di oscillazione (dallo stesso ineluttabile destino del primo), necessita di un bilancio federale che funga da arteria femorale per compensare le asimmetrie competitive tra Stati e svolga funzione anti-ciclica e ridistributiva attraverso la fiscalità. Occorre però adottare una prospettiva politica estremamente ambiziosa. O l’euro è una scelta geopolitica o non è.
Proprio la Strega, nell’agosto del 2012, naturalmente questo nella favola non si dice, ha riversato sui tavoli europei delle linee di sviluppo dell’area euro che parlavano senza reticenze di bilancio federale sottoposto a controllo democratico quale approdo. Progetto perfettibile e che non escludeva la necessità di fare le riforme ognuno in casa propria, ma che additava gli Stati Uniti come modello politico e l’emissione di euro-securities. La preoccupazione maggiore di quel Paese è infatti vincere la strana logica invertita che imperversa.
Nella successione storica degli stati federali si sono sempre viste prima le unioni di bilancio e poi quelle di trasferimento o almeno le due cose devono essere coeve. Altrimenti chi trasferisce risorse teme di gettarle in un buco nero. Occorreva a quel punto (e occorre oggi) additare un orizzonte storico al nostro Paese spiegando alla Francia (vero ostacolo e partner indefettibile a questo progetto) che lo status quo non è difendibile. In mezzo al guado non si può stare. Si viene trascinati dalla corrente della storia. Storia che, a differenza della favole, non ha sempre il lieto fine ed è il portato delle scelte degli uomini qui e ora.