Gli investitori e i piccoli risparmiatori, in passato, hanno gradito. Il Tesoro ha, quindi, deciso di riproporre i Btp Italia. Si tratta di titoli quadriennali, il cui taglio minimo sottoscrivibile è di 1.000 euro. Sarà possibile acquistarli da oggi lunedì 15 aprile fino a venerdì 18. Garantiranno un rendimento del 2,25%, saranno assicurati contro l’inflazione e, «in caso di deflazione, le cedole» saranno «comunque calcolate sul capitale nominale investito, quindi con una protezione estesa non solo alla quota capitale, ma anche agli interessi». E’ la quarta volta che lo Stato propone questo singolare strumento auspicando, come in passato, che le sottoscrizioni risultino decisamente superiori alle attese (complessivamente, hanno consentito, finora, una raccolta di 25 miliardi di euro). Resta il dubbio che si tratti di una mossa per far cassa il più in fretta possibile, aggirando lo spettro dell’incedere rapido dello spread. Abbiamo chiesto a Rocco Corigliano, professore di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università di Bologna, come stiano le cose.



Cosa ne pensa dei Btp Italia?

Il ministero dell’Economia, ancora una volta, ha arricchito la gamma di titoli emessi, ritagliandoli sulle esigenze dei risparmiatori. Si tratta, in sostanza, di ottimi investimenti.

Perché?

Anzitutto, perché è garantita la solvibilità dell’emittente. Questo va detto. E’ ormai chiaro a tutti, infatti, che il nostro Paese non è a rischio default. I Btp Italia, inoltre, offrono ottimi rendimenti. E, oltretutto, sono coperti dal rischio inflazione mentre i titoli comuni no. Il rendimento nominale, quindi, è reale. Direi che è questa la caratteristica fondamentale, specialmente se consideriamo che questa fase economica travagliata dura ormai da molto tempo. Infine, non sono previste commissioni bancarie.



Perché lo Stato ha deciso, per la quarta volta, di effettuare un’operazione del genere?

Si tratta di un’innovazione attuata all’interno della tradizionale politica di emissione di titoli.

Quindi, non è legata ai timori derivanti dallo spread?

Lo ribadisco, per quanto l’ammontare elevato del nostro debito pubblico rappresenti, di per sé, un grosso problema, il nostro Paese non è a rischio default. D’altra parte, è chiaro come le valutazioni degli investitori circa la vantaggiosità dell’investire o meno nel nostro debito siano, a oggi, positive. Ci sono stati dei momenti in cui si è pensato che l’Italia potesse fare la fine di Grecia, Spagna e Irlanda. Di recente, si è capito non solo che questo rischio non esiste ma che l’Italia offre pure buoni rendimenti. Di conseguenza, gli stranieri sono tornati a investire da noi. Verosimilmente, questi titoli susciteranno l’interesse anche degli investitori istituzionali stranieri.



 

Non sarebbe meglio insistere nella riduzione dell’esposizione del nostro debito pubblico all’estero?

Assolutamente no. E’ meglio, casomai, che non si induca la percezione del rischio Italia. Se buona parte della ricchezza che si crea all’estero finanzia il debito italiano, vuol dire che non siamo costretti a usare più risorse di quelle di cui effettivamente disponiamo; e significa, inoltre, che tutti credono nel nostro debito, nella solidità del nostro Paese, nel fatto che abbiamo una grande industria e che, di conseguenza, ci finanzino. E’ come, in sostanza, quando un’azienda riesce a ottenere credito da una banca. Vuol dire che quell’azienda ispira fiducia.

 

(Paolo Nessi)