Mario Draghi ha bacchettato di nuovo le banche e ha definito “sconcertante” che non finanzino le piccole e medie imprese dalle quali derivano i tre quarti dell’occupazione. Il canale del credito è intasato. Ma non avviene perché è stato chiuso il rubinetto centrale che al contrario pompa liquidità da almeno un anno e mezzo. La banca centrale tocca con mano i limiti strutturali della politica monetaria. La Bce ha avuto successo nel suo compito primario: tenere bassi i prezzi, persino troppo (oggi sono sotto il 2%). Non è riuscita, invece, nell’altro obiettivo che pure il trattato le assegna, cioè garantire la crescita nella stabilità.



I colli di bottiglia sono molti. Il primo è dentro il sistema bancario. Le aziende di credito sono troppo fragili e sottocapitalizzate. A sei anni dallo scoppio della crisi, l’effetto leva resta eccessivo, tale da mettere in pericolo l’intera catena ogni qual volta si spezza un anello debole. La seconda strettoia è rappresentata dalla domanda interna: troppo bassa, sostanzialmente ferma in tutta Europa, inibisce le banche e aumenta la preoccupazione sulla tenuta dei redditi e, di conseguenza, dei risparmi e dei depositi. Il bollettino della Banca d’Italia ieri conferma che «la dinamica negativa dei redditi e la forte incertezza sulle prospettive economiche e occupazionali delle famiglie continuano a influire sulla spesa per consumi, in calo da quasi due anni». Il terzo tappo riguarda il modello europeo troppo bancocentrico. Nel Vecchio Continente circa due terzi dei finanziamenti all’economia vengono dalle banche, negli Stati Uniti esse forniscono solo il 40% dei mezzi, il resto le imprese se lo procurano da sole sul mercato dei capitali, emettendo titoli.



Il problema numero uno è irrisolvibile se le banche continuano a nascondere la testa sotto la sabbia. Il riferimento ai parametri di Basilea è un fumus burocratico. La crisi del 2008 ci ha dimostrato che non basta. La convinzione che alla fine il sistema possa reggersi su una sorta di mutua fiducia, s’è rivelata fallace.

Rimuovere il secondo ostacolo spetta alle politiche economiche dei governi. E qui la questione è tanto semplice quanto difficile: non si tratta di abbandonare l’austerità ovunque e da un giorno all’altro; no, la ricetta è più sofisticata ed è stata indicata in numerosi consessi internazionali, G7, G8, G20, Fondo monetario internazionale e chi più ne ha più ne metta: i paesi che hanno messo in ordine il bilancio pubblico e possono vantare un attivo nei pagamenti con l’estero debbono aumentare la domanda interna e fare da locomotiva agli altri che, nel frattempo, sistemano i loro conti. In Europa, fuor di metafora, si tratta della Germania. Purtroppo, Draghi non ha strumenti se non la moral suasion. Tutti gli altri non sono in grado di esercitare nessuna influenza, perché non ne sono capaci o perché non sono abbastanza autorevoli.



Per affrontare il terzo punto, si stanno cercando vari strumenti, vere e proprie scorciatoie. In Italia si parla di un fondo ad hoc per le piccole e medie imprese, cioè quelle che hanno maggiori difficoltà a emettere proprio strumenti di debito. Ma inutile nascondersi che il problema ha carattere più generale. Luigi Guiso e Guido Tabellini su Il Sole 24 Ore stimano che le imprese italiane nei prossimi tre anni dovranno investire 150 miliardi di euro: ben che vada dalle banche potranno arrivarne una sessantina. Come trovare gli altri novanta? Lo stesso quotidiano della Confindustria ha lanciato l’idea di un super fondo che canalizzi le grandi risorse che esistono fuori dalle banche; sarebbero addirittura 800 miliardi, pari alla ricchezza di tutti gli investitori istituzionali: assicurazioni, fondi pensioni, fondazioni, private equity.

La cifra fa impressione, ma vanno fatte un po’ di distinzioni. Intanto, le fondazioni oggi come oggi impegnano i loro quattrini nelle banche: è da lì che arriva il grosso se vogliamo che il sistema creditizio si rafforzi e aumenti la propria dotazione di capitale. Altrimenti, dovrebbero intervenire le assicurazioni, i fondi o altri di quegli investitori istituzionali che si vuole invece utilizzare per le piccole industrie. Insomma, le risorse sono quelle: o vanno da una parte o dall’altra.

Non solo. Non bisogna dimenticare che lo Stato si finanzia emettendo titoli i quali a loro volta vanno nelle banche, nelle assicurazioni, nei fondi. Restano nei loro portafogli o passano in quelli dei privati. In ogni caso è un’altra fetta di ricchezza già impegnata, una fetta crescente perché dalla crisi del 2011 in poi il debito italiano si è rinazionalizzato (oggi due terzi sono in mano a italiani). Insomma, in una situazione stagnante, finanziare il debito pubblico genera un effetto spiazzamento. Non si può nemmeno mettere tutto sulle spalle della Cassa depositi e prestiti. Le sue risorse sul piano degli investimenti in equity, sono pressoché tutte impegnate. Può fare ancora dal lato del debito, ma non tanto in termini di interventi nelle imprese.

Draghi dice che è molto, molto difficile trovare un escamotage: nessuno strumento finora ha funzionato, nemmeno il Funding for Lending della Banca d’Inghilterra. Comunque, annuncia di essere pronto a muoversi “a 360 gradi con strumenti non convenzionali”. A suo parere, infatti, una riduzione dei tassi di interesse non ha nessuna efficacia, il costo del denaro è già basso e le banche possono indebitarsi all’1% presso la Bce. Dunque, la banca centrale potrebbe acquistare direttamente strumenti finanziari emessi dalle imprese come fa la Fed, la quale tra l’altro ha ridato respiro al mercato immobiliare acquistando bond simili alle vecchie cartelle fondiarie italiane. Un’esperienza da analizzare, anche perché non viola i compiti stabiliti dal trattato.

Bisogna mettere in campo tutta l’immaginazione e l’energia necessarie per uscire da questa trappola e trasformare il denaro che circola nel mondo come un ectoplasma in investimenti produttivi. E tuttavia, ancora una volta, non ci sono vie d’uscita laterali, non esistono porte di servizio.

La complessità della situazione e le novità introdotte nei gangli di funzionamento del sistema, richiede di esaminare in profondità e senza pregiudizi le politiche economiche europee e il funzionamento del sistema monetario. Anche a costo di rivedere i trattati. Tutti, a cominciare da quello di Maastricht, sono stati concepiti in epoche storiche diverse e sono ormai vecchi. I due parametri fondamentali, il rapporto debito/Pil al 60% e il deficit al 3% che non hanno mai avuto un valore scientifico, oggi sono delle bussole verso il nulla. Dunque, vanno tarate in modo diverso. La stessa banca centrale non può avere in modo esplicito come suo obiettivo la crescita sullo stesso piano della stabilità, non come sua subordinata.

Vasto progetto, certo. Ma attenzione, non è poi così lontano. Il dibattito elettorale in Germania ha messo al centro proprio la revisione dei trattato, anche grazie al successo di Alternative für Deutschland, la nuova formazione euroscettica. Ancora una volta, così, per pavida difesa dell’ortodossia si rischia di essere spiazzati da attacchi che vengono non dall’esterno ma dal cuore stesso dell’establishment europeo.

E intanto? Come tirar fuori quei 90 miliardi? Qui il discorso ci porta dritti dritti dall’economia alla politica e dall’Europa in Italia. Aiuto. Ma siccome non possiamo alzare bandiera bianca, occorre che il nuovo Presidente della Repubblica non si limiti a dare un incarico pur di risolvere nel breve tempo possibile lo stallo: tipo, o Bersani ce la fa o facciamo le elezioni. No, dovrà cercare una personalità in grado di dare ragionevoli garanzie di riuscita e indicargli anche la rotta. Può anche consegnare al nuovo governo i due ponderosi dossier preparati dai dieci saggi di Napolitano, ma sottolineando con un evidenziatore rosso che la prima cosa da fare è spezzare quei tre colli di bottiglia e far sgorgare il denaro liquido verso il basso.

Quanto alle banche, essendo parte rilevante del problema, non possono diventarne nello stesso tempo la soluzione. Tuttavia, non cerchino alibi. Senza ritorni a dirigismi d’altri tempi, le autorità monetarie e politiche non possono non esigere uno sforzo straordinario in termini di efficienza, consolidamento e risorse da convogliare verso le imprese e le famiglie.