“Ma che sta capitando in Germania?” si chiede Max Warburton di Bernstein Research, uno dei più stimati analisti del mondo dell’auto. Nei primi tre mesi del 2013 le vendite di auto nella Repubblica Federale sono scese del 13%, più della media europea (-10%), peggio che in Spagna -12%. A fine marzo, fatto quasi inedito, la Germania è solo il secondo mercato del Vecchio Continente, scavalcata dal Regno Unito. Ma in realtà le cose vanno ancora peggio: il mercato “corporate”, quello delle flotte aziendali , va infatti a gonfie vele. Il che sta a indicare che le famiglie tedesche hanno stretto i cordoni della borsa.



Certo, la formidabile macchina produttiva tedesca può reggere l’impatto di una flessione in patria molto meglio dei concorrenti. In fin dei conti, Volkswagen può far valere in tutta Europa la forza che deriva dallo strapotere finanziario del Paese. Basti dire che, in media, la casa di Wolfsburg paga il denaro l’1,9%, contro l’8,1% di Peugeot (Fiat non sta senz’altro meglio). Con queste premesse non è difficile offrire ai clienti condizioni di pagamento competitive… Ma la frenata delle vendite in Germania è fonte di preoccupazione, assai al di là delle sorti dei giganti di Wolfsburg o di Stoccarda.



Le multinazionali tedesche possono produrre e vendere altrove, rimediando a una fase di stanca sul mercato interno. Ma l’allarme, per la Germania, resta. A cento anni esatti dall’uscita della fabbrica di Baton Rouge a Detroit della prima Ford T, il modello con cui inizia la storia della motorizzazione di massa, l’auto resta uno dei termometri più fedeli sia della fiducia che dei consumatori che della coesione sociale.

“Che cosa sta capitando in Gemania – insiste Warburton – Come è possibile che il mercato vada così male quando la crescita dell’economia resta buona e non mancano i posti di lavoro?”. E qui l’analista si dà questa risposta: “La frenata è legata alle preoccupazioni sul futuro dell’euro che sta intaccando la fiducia dei tedeschi”. Una paura che sembra immotivata. Proprio ieri Moody’s ha confermato la tripla A per la Germania. Moody’s elogia la “avanzata, diversificata e altamente competitiva economia” della Germania e le sue politiche che restano “sulla strada di macroeconomie orientate alla stabilità”. Inoltre, Moody’s evidenzia che la Germania “incontra un alto livello di fiducia da parte degli investitori, come riflettono i costi molto bassi di rifinanziamento”. 



Per l’agenzia, il debito della Germania è atteso in calo al 70% del Pil nei prossimi cinque anni da circa l’80% di oggi. Moody’s ha poi spiegato che l’alto debito di Berlino e le spese per gli interessi restano gestibili grazie ai bassi costi di finanziamento. L’agenzia Usa stima per la Germania una crescita in calo allo 0,4% per il 2013 e un’accelerazione all’1,5% nel 2014. Ma l’outlook resta negativo, precisa l’agenzia, a causa della crisi nell’eurozona. Per giunta, la comunità finanziaria, invece che punire i reprobi, gioca con il fuoco. La valanga di carta creata dalla Federal Reserve e dalla Bank of Japan, in attesa che parta il bazooka della Bank of England, ha inondato il mondo di 22 mila miliari di dollari che stanno intossicando Borse e titoli del debito. Perfino gli italiani, da quasi cinquanta giorni fermi a litigare sulle poltrone, possono contare su forti afflussi di capitali da parte degli operatori.

Eppure sul banco degli imputati del vertice del G20 a Washington sarà al solito la Germania che si presenta con una pagella da prima della classe: il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble confermerà l’obiettivo di un bilancio tedesco in surplus nel 2016. Ma serve essere troppo virtuosi in materia di debito? Alla vigilia degli incontri di Washington tre economisti del Fmi hanno contestato dalle radici uno dei cavalli di battaglia dei campioni dell’austerità: lo studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, uscito nel 2010, che dimostrava come i paesi con un debito pubblico almeno pari al 90% del Pil hanno registrato dal 1946 in poi una crescita media negativa (-0,1%). Niente di vero, sostengono i tre. A questo risultato si è arrivato per un grosso errore nell’uso di Excel a causa del quale sono scomparsi i dati di alcuni paesi (Australia e Austria tra gli altri) che avrebbero ribaltato il risultato. La crescita dei grandi debitori, in realtà, è stata attorno al 2,2%, in tutto simile a quella dei Paesi virtuosi. Non è questa la soluzione della bassa crescita, incalzano gli allievi del chief economist Olivier Blanchard. Per aggredire il problema ci vuole una manovra che combini l’allargamento della base monetaria con forti interventi di fiscal policy, quella stratega che la Bundesbank vede come il diavolo.

La sensazione dell’accerchiamento può giocare brutti scherzi. Fa specie vedere la copertina dello Spiegel in cui si accusa la “bugia della povertà”, cioè la tesi per cui in Sud Europa, come lascia intendere una malintesa lettura di una ricerca della Bce sulla ricchezza degli europei, in realtà la gente campa meglio dei virtuosi tedeschi. Perciò, d’ora in poi, la Germania non verserà più un quattrino per i salvataggi della zona euro. Gli italiani? Se vogliono stare con noi, rompano i loro salvadanai.

Inutile spendere parole per ribattere a tesi così grossolane. È evidente che una nuova dose di tasse in Italia, Spagna o Grecia farebbe scendere i consumi ancora più in giù, a danno dell’industria tedesca, accelerando l’effetto domino. L’opposto di quanto suggerisce il Fondo: se l’Europa non cambia rotta rischia di essere un problema per tutti ammonisce Blanchard, perché sta rallentando troppo anche al centro, perfino in Germania. Sarebbe bene che Berlino la finisse con l’austerità almeno in casa propria.

Accetterà l’invito Berlino? Sicuro che no. A pochi mesi dalle elezioni Angela Merkel non ha alcun interesse a incrinare l’immagine di chi vuol tenere chiusi i cordoni della borsa. La Germania continuerà a essere inflessibile con se stessa e quindi continuerà a esserlo anche con il resto d’Europa. Il massimo che concederà è quello che è già stato concesso, il temporaneo congelamento delle politiche fiscali restrittive nei paesi in recessione.

Le virtù private sono però pubblici vizi. Un’Europa a crescita zero a perdita d’occhio diventa ancora più inaccettabile in un contesto globale di deflazione strisciante. La Bce cercherà di compensare le asprezze fiscali di Berlino con politiche aggressive. Si inizierà in giugno o luglio con un taglio dei tassi e poi si replicherà con i rifinanziamenti a lungo termine alle banche o ci si inventerà qualcosa di nuovo.

Si cercherà, a un certo punto, di buttare giù l’euro. Ma, parola di Jens Weidmann, non illudiamoci che la crisi dell’euro possa essere debellata presto. “Forse ci vorranno dieci anni” ha detto il presidente della Bundesbank al The Wall Street Journal. Ecco perché anche dalle parti del Reno è passata la voglia di cambiar macchina.