L’eco delle votazioni per la Presidenza della Repubblica – e soprattutto la débâcle della coppia Bersani-Prodi (il secondo non ha molti amici nella capitale americana) – è giunta molto lontano: a Washington dove si svolge in questi giorni la sessione primaverile delle riunioni degli organi di governo del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (Bm). Tenendo conto della differenza oraria sono state seguite quasi in diretta durante la riunione preparatoria del 19 aprile e in quella formale dell’International Monetary and Financial Committee della mattina del 20 aprile (orario di Washington – pomeriggio e sera in Italia).



Il 18 aprile, il Managing Director del Fondo, Christine Lagarde, aveva presentato un quadro relativamente ottimista della ripresa dell’economia mondiale, sottolineando come aree in difficoltà (soprattutto l’eurozona) avrebbero ritrovato un passo adeguato nel 2013; in questo contesto, la svolta per l’Italia (da recessione a ripresa) veniva collocata per la fine dell’anno. Le notizie provenienti da Roma, invece di confermare questo scenario, rendevano le prospettive più cupe. Lo stesso Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, presente alla riunione, ha notato come l’instabilità politica non può non avere effetti negativi sull’andamento dell’economia (nonostante la riconferma di Napolitano resta infatti l’incognita sul futuro governo). All’ultima conta (dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali), la contrazione del Pil italiano nel 2013 è stimata dell’1,5% – che potrebbe diventare 2% se il quadro politico non si rasserena presto e non si giunge a un Governo solido.



In questo contesto, nella settimana che inizia oggi la Commissione Speciale della Camera deve esaminare il Documento di economia e finanza (Def), recentemente licenziato dal Governo in carica nel quadro degli adempimenti del semestre europeo. Il dibattito sul graduale sblocco dei debiti delle pubbliche amministrazioni alle imprese (seguito nelle settimane scorse su queste pagine) ha chiaramente messo in luce come lo sconfortante andamento dell’economia e la difficile situazione della finanza pubblica pongano il 2013 sul fil di lana in termini di mantenimento dell’indebitamento netto al di sotto del vicolo (3% del Pil) contenuto tanto nel Trattato di Maastricht quanto nel Fiscal compact. In aggiunta, la previsione macroeconomica del Def è particolarmente preoccupante per quanto riguarda il 2014.



Per l’anno prossimo, che è proprio quello per il quale si deve fare un documento programmatico di riforme, nelle stime dello stesso Def il Pil è stagnante, e lo sarà per tutti gli anni seguenti (che però sembrano solo proiettati sulla base del 2014). La crescita è dell’1,3%, e rimane sull’1,4% nel triennio successivo. Una crescita, per di più, molto fragile in quanto dipendente dall’andamento dell’export, e dalla capacità dell’Italia di acquisire nuove quote di mercato internazionale (ossia di aumentare la propria competitività). L’occupazione cessa di scendere, ma ristagna. Il tasso d’inflazione è poco sotto il 2%, i consumi privati ristagnano poco sopra l’1% (dopo che, per il secondo anno consecutivo, persino i consumi alimentari sono cresciuti in valore nominale al di sotto del tasso di inflazione), un po’ meglio vanno gli investimenti fissi.

A riguardo è utile sottolineare che da oltre un anno un dibattito sul Fiscal Multiplier (tema apparentemente tecnico, ma carico d’implicazioni di politica economica) sottolinea il rischio che prolungate e rigide politiche di austerità fiscale generino effetti pro-ciclici controproducenti sulla stessa sostenibilità del debito pubblico, nonché conseguenze devastanti sul capitale umano e sul tessuto produttivo del Paese. In Italia, tale dibattito non è stato circoscritto alle università e agli ambienti accademici. Se ne è parlato a lungo in centri di riflessione e studio come la Fondazione Astrid e la Fondazione Ugo La Malfa. Ha trovato anche spazio in documenti del Cnel di “Osservazioni e Proposte” al Parlamento.

Analisi recenti (ad esempio, uno studio di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università del Massachusetts, di cui si è parlato anche su queste pagine) confermano questi rischi e suggeriscono che la strada seguita in questi anni (in gran misura sulla base delle analisi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sintetizzate nel loro best seller This Time is Different; Eight Century of Financial Folly’ potrebbe avvitarci in una sempre più grave recessione. Economisti di vari Paesi dell’Ue (anche della Germania) hanno proposto percorsi per giungere, gradualmente, a una revisioni dei Trattati (in particolare del Fiscal compact).  

Una proposta concreta è apparsa nel Ruhr Economic Pape No.49 a opera di due accademici tedeschi, Christoph M. Schmidt e Benjamin Weigert. Il loro lavoro si intitola “Weathering the Crisis and Beyond: Perspectives for the Euro Area” (Superare la crisi e andare al di là dell’area dell’euro): date le crepe nel disegno iniziale messe a nudo dalle vicende di questi ultimi anni, la fragilità del sistema bancario europeo, i nodi degli Stati ad alto debito sovrano e la crescente convinzione che si è alla prese “con una vera e propria crisi di sistema”, invece di tentare di affrontare le tematiche singolarmente (Fondo salva-Stati, unione bancaria, costituzionalizzazione dei pareggi di bilancio), non è preferibile modificare le caratteristiche dell’eurozona tramite un European Redemption Pact con una forte caratura politica?

Ci sono timide aperture dalla stessa arcigna e burocratica Commissione europea. Ad esempio, il Green Paper su Long Term Financing contiene un pertugio per possibili interpretazioni espansive della spesa per investimenti pubblici. Senza un Governo autorevole, per l’Italia sarà difficile utilizzarle.