Mentre in Italia i mercati festeggiavano il secondo mandato di Giorgio Napolitano e la prospettiva a breve di un governo, dall’Europa arrivavano cartoline allarmanti. In base a un sondaggio commissionato dal quotidiano economico Handelsblatt, il 19,2% dei 1003 tedeschi interpellati ha intenzione di votare il partito anti-euro “Alternativa per la Germania” alle politiche del mese di settembre. La fascia elettorale più convinta appare quella tra 46-65 anni con il 23,1%, seguita dalla fascia 31-45 al 19,3% e poi quella 18-30 al 14,2%. Insomma, un effetto Grillo – ma in questo caso si parla di persone serie – che potrebbe terremotare non poco il Bundestag. Ed è forse perché vede lo strato di ghiaccio sotto i suoi piedi assottigliarsi o perché conscia che una nuova ondata di crisi sta per arrivare, che ieri Angela Merkel ha sfruttato un incontro organizzato da Deutsche Bank e che la vedeva in compagnia del premier polacco, Donald Tusk, per lanciare il seguente messaggio: «Sembra che siamo in grado di trovare soluzioni condivise sono quando stiamo guardando l’abisso, ma non appena la pressione si allenta, tutti dicono che vogliono fare a modo loro. Dobbiamo essere pronti ad accettare che l’Europa abbia l’ultima parola su certe materie. Altrimenti non saremo in grado di continuare a costruire l’Europa».
Insomma, detta così ci fa capire che la Merkel sia quasi certa che l’Europa – leggi Germania – stia per ritrovarsi faccia a faccia con l’abisso un’altra volta e che l’unica ricetta sia la cessione di sovranità. Tanto più che, senza che nessuno lo richiedesse, la Merkel ha tenuto a sottolineare come «sarebbe pericoloso che altre nazioni in Europa pensassero che la Germania stia imponendo il suo modello economico all’intero blocco». Parlare a nuora perché suocera intenda. Ma anche Cipro non ha voluto lesinare novità, visto che anche charities (no profit), scuole private e società assicurative vedranno i loro depositi sopra i 100mila euro presso la Bank of Cyprus sforbiciati di un bel 27,5%, su decisione della Banca centrale cipriota. La quale, elegantemente, ha reso nota la novità di domenica e con un comunicato laconico: «La revisione è stata decisa con la scopo di limitare le esenzioni, in modo da rendere meno oneroso il taglio per i grandi depositari presso la Bank of Cyprus». Insomma, si paga un po’ meno ma a saldi invariati, quindi paga anche chi era esentato fino a ieri.
Cos’altro attenda i ciprioti, è duro da immaginare. Fa invece paura quanto attende gli spagnoli. Ricorderete che in gennaio raccontai come lo scorso novembre alcune banche spagnole ottennero denaro direttamente dalla Bce al tasso preferenziale dello 0,5%, anche se il collaterale fornito a garanzia fosse con rating di credito tale da dover richiedere un tasso del 5,5%. Una violazione delle stesse regole interne all’Eurotower che portò anche a un’indagine, finita ovviamente in nulla. Degli 80 miliardi di euro circa di titoli posti a garanzia, una parte era completamente ineligibile a collaterale e a garantire il trattamento di favore sarebbe stato un titolo a 18 mesi erroneamente classificato con rating A, mentre era di fatto B sia per Moody’s che per Fitch che per Standard&Poor’s. Ma come fu possibile che accadesse una cosa simile?
La Banca centrale spagnola si affrettò a rendere noto che a suo modo di vedere la Bce aveva applicato correttamente le regole sul collaterale, poiché la misconosciuta agenzia di rating canadese Dbrs valutava ancora i titoli spagnoli A e il suo parere sul merito di credito deve comunque essere tenuto da conto in ambito di valutazione dell’eligibilità. Il problema, però, è che se un domani Dbrs dovesse operare un downgrade, magari per un salvataggio totale o parziale del Paese, potrebbe innescare un domino spaventoso. Se infatti quei bonds già sospetti dovessero essere ulteriormente abbassati di rating, le banche che li hanno posti a garanzia presso la Bce dovrebbero produrre nuovo collaterale – che non hanno, salvo vengano accettati francobolli e cartoline – per qualcosa come 16,6 miliardi di euro. E il rating di quei titoli appare a forte rischio oggi, basta guardare questi due grafici.
Ci mostrano il peggioramento della ratio di debito e deficit proprio della Spagna nei sei mesi intercorsi tra le previsioni del Fondo monetario internazionale e le loro revisioni della scorsa settimana: di male in peggio, soprattutto il dato della ratio debito/Pil, passata da «cattiva ma sostenibile a insostenibile», per il Fmi, che certifica come a causa del deficit primario non si vedrà una flessione della curva fino al 2018. Il prestito primario generale del governo, una misura che esclude il costo dei pagamenti degli interessi sul debito sovrano, è stato rivisto al rialzo dal 4,5% del Pil del 2012 all’attuale 7,9%. Per il Fmi, «la Spagna deve dar vita a sforzi fiscali senza precedenti per portare le ratio di debito nella norma, visto che poche nazioni hanno conosciuto livelli di debito simile. Una ristrutturazione del debito appare quindi più probabile e questo imporrà costi sociali ed economici sostanziali e a lungo termine».
Ristrutturazione del debito, signori, avete letto bene: e lo certifica il Fmi, non qualche agenzia di rating o qualche hedge fund pronto a speculare. Vi pare non ci sia materia per una downgrade del rating a breve? Ma si sa, la Bce è regina nel mettere toppe: c’è il programma Step, quello che sta inondando di liquidità le banche francesi a fronte di bond bancari autoemessi con rating da barzelletta, c’è l’Ela, c’è l’estensione del programma Ltro. Per ora, ma per quanto ancora, se a settembre davvero “Alternativa per la Germania” dovesse fare il botto?
Nel frattempo, arrivano altre notizie dal fronte del mercato dell’oro di carta, ormai intrinsecamente legato ai guai del debito sovrano dell’eurozona dopo il caso Cipro. Al netto dell’incursione speculativa della scorsa settimana, gli ultimi dati della Commodity Futures Trading Commission statunitense ci confermano come hedge funds e grossi investitori (leggi banche) stiano scommettendo su un rimbalzo del prezzo dell’oro, visto che nella settimana conclusasi il 16 aprile, le posizione long – ovvero di chi scommette sul rialzo – sono aumentate del 9,8%. Insomma, si torna a giocare come prima ma con una consapevolezza in più: c’è tanto oro di carta ma poco, immediatamente disponibile, oro fisico, quello che serve a rendere sicura alla vista dei mercati una moneta, ad esempio o a onorare contratti di delivery che non siano speculazione pura sui margini. Sarà per questo che, in una vera democrazia qual è la Svizzera, si voterà sull’argomento.
Il Partito del popolo ha infatti raccolto le 100mila firme necessarie a indire un referendum, già confermato dalla Cancelleria federale, con il quale si chiede che alla Banca centrale sia vietata la vendita di riserve auree, che il 20% almeno degli assets della Banca siano in oro e che si avvii immediatamente la procedura per il rimpatrio dell’oro fisico depositato all’estero. Per gli ideatori della campagna, denominata “Salviamo il nostro franco svizzero”, «oggi l’oro è quasi l’unico asset di valore nel bilancio della Banca centrale». Certo, ci vorrà del tempo per arrivare davvero a un voto popolare che vincoli le scelte della Banca centrale, ma è un segnale, molto chiaro, di come quanto accaduto a Cipro e la disputa sulla ricchezza relativa dei paesi periferici stia spaventando molto più di quanto si pensasse. Questo in un Paese che vede l’oro al 10% del totale del bilancio della Banca centrale, un controvalore di 49,5 miliardi di franchi svizzeri, contro il 70% abbondante della Banca d’Italia con le sue 2451 tonnellate e il 90% della Banca del Portogallo con 383 tonnellate.
E non basta. Negli Usa, l’Arizona sta per diventare il secondo Stato dove si potranno usare monete d’oro e argento con valore legale, ovvero accettate per pagamenti. La scorsa settimana, i regolatori dello Stato hanno approvato una legge al riguardo, già in vigore nello Utah dove le monete d’oro della Zecca statunitense, così come quelle di Zecche private e certificate, sono utilizzate come valuta. Oltre una dozzina di altri Stati, inoltre, hanno in corso iter legislativi per giungere a questo status. Il tutto su iniziativa dell’opinione pubblica, la quale non solo ritiene che la Fed non sia in grado di attaccare il deficit federale, ma teme una debase e una svalutazione del dollaro, oltre che il rischio iper-inflattivo sul lungo termine visto l’infinito programma di allentamento quantitativo.
Per Miles Lester, portavoce degli Arizona Constitutional Advocates, gruppo che ha condotto la campagna per la nuova legge, «il dollaro sta per finire. Non è una questione di se ma di quando». Drastico, quasi certamente eccessivo come giudizio, ma come mai Stati notoriamente solidi (non scordiamoci il piano della Bundesbank di rimpatriare l’oro depositato a Parigi e alla Fed di New York) stanno pensando all’oro come alternativa o, comunque, ne tutelano le detenzioni e il valore e in Italia, quarto Paese per riserve al mondo, il dibattito nemmeno è accennato? Dov’è il nostro oro? In Italia o all’estero? E quello depositato all’estero, dov’è? Siamo certi del suo stato di conservazione e della certificazione della quantità? Mi piacerebbe che il prossimo governo, chiunque lo presieda, facesse suoi questi interrogativi.