Sarà un governo con il sapore amaro dell’emergenza e il gusto stantio di un’altra transizione? Il rischio c’è e lo stesso Enrico Letta ha messo le mani avanti. “Il governo non nascerà a tutti i costi”, ha detto, facendo fibrillare Giorgio Napolitano, il quale lo ha scelto al posto di Giuliano Amato che restava sempre il suo candidato preferito. Non a caso, il presidente della Repubblica ha replicato: “Confido nel successo. Non ci sono alternative”. È la verità: tatticismi, manovre, pali e paletti non possono nascondere che a destra a sinistra di questo sentiero sottile c’è il precipizio. Sia chiaro, le elezioni anticipate possono anche essere lo sbocco naturale di un esecutivo “di servizio” (così l’ha chiamato Letta). Ma assumono il significato drammatico di un fallimento, di una resa, se arrivano dopo aver fatto affondare anche questa scialuppa.



Perché se è vero che il dirty job, il lavoro sporco, lo ha già fatto Mario Monti, al nuovo governo toccherà comunque spargere spine, non petali di rosa, sul cammino degli italiani. I conti pubblici non sono ancora in sicurezza e intanto occorre allentare un po’ i cordoni, trovare i quattrini per la cassa integrazione, sistemare il pasticcio degli esodati, garantire i 40 miliardi di crediti alle imprese (bisogna avere i soldi nel cassetto e varare ben 30 decreti attuativi), discutere la legge di bilancio per il prossimo anno. Insomma, da far tremare i polsi anche a un politico gelido e consumato.



“Letta è una specie di tecnocrate, ma in realtà è un politico”, ha cinguettato Hugo Dixon. E ha ragione. È questa la percezione internazionale della scelta fatta da Napolitano, il quale è stato indotto a mollare Amato per alcune considerazioni di fondo. La prima è l’età. Amato ha 76 anni e anche se il Wall Street Journal ha salutato con soddisfazione la saggezza dell’Italia senior, l’idea di una gerontocrazia avrebbe appesantito il giudizio (e il pregiudizio) su un Paese che non riesce a rinnovarsi. Ma non è stata solo una scelta generazionale. Portare per la terza volta Amato a capo del governo avrebbe evocato gli spettri del 1992. Lo stesso candidato, del resto, il giorno prima aveva smentito in anticipo le preoccupazioni peggiori: niente patrimoniale e, soprattutto, niente prelievo forzoso sui conti correnti, il provvedimento che lo ha reso famoso (o famigerato). Nonostante questo, i tamburi rullavano nella rete e fuori.



La terza ragione riguarda la tenuta del Partito democratico. Napolitano ricorda bene lo schiaffo del novembre 2011. Mario Monti, incaricato dal presidente di formare un governo politico, non tecnico, con dentro, in qualità di vice, i capi dei tre principali partiti (Pdl, Pd e Udc), ricevette un secco no da Pier Luigi Bersani. Per aggirare il veto, propose Enrico Letta. Bersani rifiutò: Letta lo avrebbe scavalcato. A quel punto il professore tirò fuori Amato. “Benissimo, ha tutto il mio apprezzamento – replicò il segretario del Pd -, ma sappi che non ci rappresenta, non è nemmeno iscritto al partito”. Il rischio, dunque, di avere un nuovo caso Marini, con i piddini schierati contro Amato, sarebbe stato altissimo. Esiste anche con Letta, sia chiaro, ma in questo caso riguarda solo la minoranza.

La scelta di Napolitano ha anche altri vantaggi per così dire esterni. Intanto, può incassare il sì della Lega. E poi Letta è uno che sa parlare con Angela Merkel, ma anche con Barack Obama. E il secondo è l’interlocutore più importante. Washington ha fatto un tifo da stadio per il secondo mandato a Napolitano: ne ha parlato l’ambasciatore Thorne ad aprile anche in colloqui riservati, ma già si era capito fin da febbraio in quella che sembrava l’ultima visita di Stato a Washington. Gli Stati Uniti hanno detto urbi et orbi che considerano l’Italia un partner in qualche modo speciale, un messaggio che è arrivato dritto dritto fino a Berlino. Il collasso dell’Italia schiacciata dai propri errori, ma anche dalla Panzer-Division teutonica (altro che austerità, ormai sarebbe meglio chiamarla deflazione), è un rischio che l’America non si può permettere.

Un secondo vantaggio è la competenza di Letta nella politica europea (fin dai tempi dei suoi studi pisani) e nella politica economica che oggi sono strettamente intrecciate. Una delle prime cose dette dal presidente del Consiglio incaricato ai giornalisti che lo attendevano nel salone del Quirinale è stata la necessità di combinare il rigore dei conti pubblici con un impulso alla crescita da negoziare anche a Bruxelles. Per valutare meglio tutti questi aspetti bisogna attendere che venga fuori la composizione del governo, la lista dei ministri, la maggioranza sulla quale può contare. Perché un governicchio con una manciata di voti non può sopravvivere e tanto meno sarà in grado di proporre alcunché in sede europea.

Una certa reticenza di Letta, quell’insistere sulle proprie forze e sul peso immane che forse non riuscirà a sopportare, ha allarmato Napolitano che gli ha conferito un mandato pieno, non esplorativo. Può darsi che si tratti di pretattica, o meglio di un avvertimento al Pdl che con il segretario Angelino Alfano ha già cominciato a porre condizioni. Vedremo. Il parto non è facile e il cammino sarà ancor più accidentato. Conta molto uno sforzo di audacia e determinazione, per esempio scegliendo un governo snello, pieno di figure competenti, soprattutto nei ministeri chiave (economia, esteri, riforme istituzionali), capaci di combinare gli interessi di parte con l’interesse generale. Monti si è detto disponibile, ma forse sarebbero meglio personalità nuove.

In un intervento su Il Foglio nell’ottobre scorso, Letta ha ricordato di essere cresciuto alla scuola di Beniamino Andreatta “che amava richiamare il parallelismo tra le politiche e la politica,attribuendo alle prime il ruolo di dare corpo e sostanza alla seconda. Oggi, nel pieno della peggiore crisi che le nostre generazioni abbiano mai vissuto e al cospetto di un collasso vero e proprio del sistema della rappresentanza pubblica italiana, l’equazione si è fatta ancor più intricata e complessa”. Poi con uno scatto d’orgoglio: “Mettere l’Italia prima di tutto non è all’altezza delle nostro storie? Perché mai dobbiamo essere diversi dalla Francia e dalla Germania dove la politica non difetta comunque di competenza, credibilità, rappresentatività? Perché, solo da noi, l’alternativa deve essere tra populismo e tecnocrazia?”.

Sembrano le parole usate da Napolitano nel suo discorso d’investitura. Perché in Italia no? Non c’è etnia o cultura che tengano. È una questione di scelta, una questione di volontà.