Uno dei primi temi con cui si deve confrontare il Governo (se, come ci auguriamo, Enrico Letta scioglierà la “riserva” in modo positivo) è in che misura occorre perseguire una politica di austerità per raggiungere l’equilibrio strutturale di bilancio (richiesto dalla normativa europea e italiana) ove non nel 2013 (come inizialmente proposto) almeno nel 2014 (come previsto nel Fiscal Compound). L’aumento del disagio sociale (incremento di differenze di reddito e consumo per fasce sociali, del numero delle famiglie incapienti, della disoccupazione soprattutto giovanile, dei licenziamenti, della chiusura di aziende) sono documentati dalle rilevazioni Istat e Banca d’Italia e sono stati al centro di un seminario interno del ministero dell’Economia e delle Finanze, sulla base di un’analisi di Pietro Modiano, il 23 aprile. Il nodo centrale su cui riflettere è in che misura questi effetti negativi delle politiche di bilancio hanno carattere temporaneo dette di austerità e sono necessarie per giungere a stabilità finanziaria, e a una riduzione del peso del debito pubblico sul Pil, tale da riavviare un processo di crescita duraturo e sostenibile.
Le preoccupazioni che le strategie promosse da alcuni anni specialmente nell’eurozona non corrispondano a questo obiettivo sono state echeggiate il 20-22 aprile anche nella riunione a Washington degli organi di governo di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Tali preoccupazioni non sono il frutto solo delle reazioni di Governi (quelli nel Consiglio del Fondo e della Banca) alle prese con elettorati che, a ogni consultazione, mostrano la loro disaffezione a stringere ulteriormente la cinghia, ma anche e soprattutto di un dibattito tecnico all’interno del Fmi e del mondo accademico. In Italia, tale dibattito è stato ripreso quasi solamente in alcuni centri di ricerca, ma ora comincia a essere tema dominante pure in seno al servizio studi della stessa Banca centrale europea (Bce) – si veda “Fiscal Composition and Long-Term Growth” ECB Occasional Paper No. 1518 di Antonio Afonso dell’Università Tecnica di Lisbona, liberamente scaricabile, dal 24 aprile, dal sito Bce.
Il dibattito ha aspetti molto tecnici. Semplificando, si può dire che prende l’avvio da una serie di studi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff (ambedue dell’Università di Harvard) pubblicati negli ultimi dieci anni e consolidati nel libro This Time is Different del 2009; le loro analisi concludono che quando lo stock di debito pubblico di un Paese supera il 90% del Pil, la crescita diminuisce di circa un punto percentuale. La “regola Reinhart-Rogoff” è diventata non solo dottrina dominante nella professione, ma elemento centrale di una lettera di Olli Rehn, Vice Presidente della Commissione europea, in cui si richiamavano i Ministri Economici e Finanziari dell’eurozona (e i Piigs in particolare) a osservarla con “appropriate” politiche di bilancio.
La dottrina dominante è stata di recente messa in questione, sotto il profilo puramente statistico ed econometrico, in un saggio di Thomas Herndon, Micheal Ash, e Robert Pollin dell’Università del Massachussetts a Amherst. Occorre dire che la base statistica è differente: ‘la regola Reinahrt-Rogoff’ studia due secoli di debito pubblico, mentre i tre più giovani economisti di Amherst analizzano (con maggior attenzione) il periodo dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi (anche in quanto le statistiche anteriori al 1945 lasciano, in numerosi paesi, a desiderare): da allora i paesi con un debito pubblico superiore al 90% hanno avuto una crescita del 2,2% non del -0,1% (secondo i conti Reinahrt-Rogoff’). Inoltre, i tre economisti trovano in This Time is Different un errore econometrico materiale (relativo alla codificazione dei dati) – errore ammesso (con scuse) da Reinahrt e Rogoff.
Su questo dibattito, se ne è inserito un altro, apparentemente tecnico ma denso d’implicazioni politiche. Il Capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, ha rivolto l’attenzione del servizio studi dell’istituzione all’analisi del fiscal multiplier, da intendersi come effetto della contrazione (o espansione) delle politiche di bilancio sul Pil (non, come apparso in vari organi di stampa economica italiana, come “moltiplicatore keynesiano” della spesa, ossia quanto indotto si attiva). In breve, le analisi del Fmi (ancora in corso) concludono che in una fase di recessione economica le restrizioni di bilancio hanno effetti molto più pronunciati sul Pil (-3% invece di -0,5%) di quando avviene in tempi normali, con la conseguenza che le politiche di austerità non solo aumentano il disagio sociale, ma rendono più arduo raggiungere equilibrio di bilancio e riduzione del fardello del debito.
Questi spunti non sono lana caprina per economisti: hanno implicazioni molto serie per le politiche pubbliche interne e per gli interrogativi che un Governo con le spalle robuste può, anzi, deve sollevare in sede europea.