Pochi sanno che Fabrizio Saccomanni, neo-ministro dell’Economia e delle Finanze, è un vero e serio melofilo. Lo conosco da quando vivevo a Washington. Vi ero approdato nel 1967 (e ci restai sino al 1982). Fabrizio e suo moglie Luciana vi arrivarono nel 1970 e vi vissero sino al 1975. Ci presentò Francesco Palamenghi-Crispi, una persona squisita che era stato un amico di mio padre e ha rappresentato per dieci anni l’Italia nel Consiglio d’Amministrazione del Fondo monetario internazionale (organo che si riunisce di norma tre volte la settimana e, quindi, i suoi componenti risiedono a Washington).
Io lavoravo in Banca mondiale nel settore progetti (quindi contornato da ingegneri, agronomi e altri specialisti), lui al Dipartimento rapporti commerciali e di cambio del Fmi; allora le due istituzioni erano ancora nello stesso edificio e, quindi, era facile incontrarsi a lunch o per un caffè. Scoprimmo che eravamo ambedue melofili e che avevamo trascinato nella nostra passione le rispettive mogli. Lo era un po’ anche Palamenghi-Crispi, ma, come molti italiani, i suoi “confini” erano Verdi e Puccini, mentre noi spaziavamo molto nel teatro in musica dell’Europa centrale e orientale e nella contemporaneità (in quegli anni le “prime mondiali” di Beatrice Cenci e Bomarzo dell’argentino Alberto Ginastera venivano date in una Washington puritana che si scandalizzava sia per i nudi integrali in scena, sia per la dodecafonia). Altri melofili italiani con ruoli nell’economia (penso a Sergio Cofferati, a Piero Giarda, a Mario Sarcinelli e ai compianti Bruno Visentini e Luigi Spaventa) hanno la loro “melofilia” non ristretta ai nostri “campioni nazionali” dell’Ottocento e primo Novecento.
Nella Washington dell’inizio degli anni Settanta, da giovani funzionari – con stipendi da giovani funzionari (quindi, non elevati) – trovavamo sempre il modo di abbonarci alla stagione della Washington Opera e di andare, in inverno, alla tournée nella capitale federale della New York City Opera (allora davvero all’avanguardia) e, in inverno, a quella del Metropolitan (molto tradizionale) al Wolf Trap Farm Park, gran teatro all’aperto nei sobborghi ovest. Tornati a Roma, mia moglie, Patrice, ed io scoprimmo che avevamo lo stesso turno d’abbonamento dei Saccomanni al Teatro dell’Opera e ci incrociavamo spesso alla sinfonica di Santa Cecilia. Quando Saccomanni era a Londra, alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ci sorprese incontrare, nel luglio 2000, lui e Luciana al Grand St. Jean, un teatro all’aperto a dieci chilometri da Aix-en-Provence, dove era in scena quel capolavoro dadaista e cubista L’Amore delle Tre Melarance scritto e composto dal “giovane” Serghej Prokofiev tra il 1919 e il 1921 per Chicago e raramente rappresentato in Italia, anche a ragione del suo spirito corrosivo nei confronti dei Palazzi.
Che c’entra tutto questo con le responsabilità di un Ministro dell’Economia e delle Finanze di un’Italia che dopo avere ristagnato per dieci anni è in recessione da cinque? Ci trase, ci trase, direbbe Antonio Di Pietro. Il corrispondente de La Stampa da Parigi, Alberto Mattioli, ha pubblicato un bel saggio “Anche Stasera – Come l’Opera Ti Cambia La Vita”. Si può parafrasarlo dicendo che “l’Opera ti cambia l’economia”. Tutti sanno che Keynes era tanto melofilo che costruì a suo spese un teatro a Cambridge (che ne era priva) e lo gestì, per anni, in prima persona. Pochi però sanno che Hayek ascoltava musica lirica alla radio mentre si vestiva e, anche per questo motivo, arrivava alla London School of Economics a fare lezione con un calzino verde e uno rosso. Gli esempi potrebbero continuare: da Paul Volcker ad Angela Merkel.
Porre un alto dirigente della Banca d’Italia alla guida del ministero dell’Economia e delle Finanze, vuol dire “commissariare” la politica economica all’istituto d’emissione? Ossia il contrario di quanto avviene in Gran Bretagna e Francia dove le relative banche centrali dipendono dagli indirizzi del Tesoro. Ciò avvenne ai tempi di Guido Carli, ma non temo che si verificherà di nuovo, perché sin dagli anni del Fmi, Saccomanni era noto come independent thinker (ossia uno che pensa con la testa propria).
Come affronterà la tragédie lyrique dell’economia italiana? In primo luogo, sa che, nonostante i drammi dagli aspetti anche truculenti, tutte le tragédies lyriques hanno un lieto fine. Le previsioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali (pubblicate nei giorni scorsi) sono caratterizzate da un “agitato con moto” nel 2013 e un possibile “moderato cantabile” nel 2014. Per evitare tempi sfalsati e note stonate, la strategia non può che prevedere una riduzione della spesa pubblica e, in parallelo, della pressione fiscale-contributiva; una manovra “ben temperata” nel cui quadro si potrà affrontare anche il nodo dell’Imu.
Occorre anche un rilancio dell’investimento pubblico. Lo ha già sottolineato nelle prime interviste. A questo fine, e per un percorso più morbido nell’equilibrio strutturale di bilancio, è essenziale un negoziato con l’Unione europea. Dove sono apprezzati i buoni economisti e i buoni intenditori di musica. Un po’ l’opposto del tax and spend conclamato da Stefano Fassina. Il quale di buona musica non si intende.