I mercati assistono attoniti all’ultima commedia all’italiana. A un mese dal voto con c’è un governo e il Presidente della Repubblica, che scade formalmente il 15 maggio, minaccia le dimissioni. Mario Draghi lo invita a non aggiungere confusione alla confusione. E Giorgio Napolitano proclama che un esecutivo esiste, quello guidato da Mario Monti, sempre lo stesso che non è stato sfiduciato, né prorogato, ma resta in carica. Senza quell’intervento netto della coppia Draghi-Napolitano, ieri avremmo vissuto un tracollo in borsa e lo spread sarebbe balzato di nuovo sopra quota 400. Soprattutto nel momento in cui l’Unione europea esclude che l’Italia possa ottenere una proroga per il pareggio del bilancio. Roma non l’ha chiesta, ma anche a Bruxelles si dice “uomo avvisato mezzo salvato”.



“La macchina politica italiana continua a perdere colpi – scrive l’ultima newsletter dell’Ubs destinata a chi investe nella zona euro – Lo scenario politico suggerisce impasse, di conseguenza i mercati stanno ricalibrando le loro prospettive, specialmente se cominciano ad apparire all’orizzonte nuove elezioni”. Così ragiona, grosso modo, chiunque muova masse di denari alla ricerca di un buon impiego. L’intera Eurolandia, intrappolata in una stagnazione alla giapponese, appare terra incognita e ad alto rischio, come sottolinea il Wall Street Journal. Persino la Germania, rifugio per chi rinuncia a guadagnare pur di mettere al sicuro il capitale, mostra seri punti critici: la dinamica della domanda interna e dei salari evoca un ambiente propenso alla deflazione.



Quanto all’Italia, il calcolo delle convenienze mette nella colonna dei più i bassi prezzi degli asset e la prospettiva di una ripresa (sia pur debole) in autunno, nell’elenco dei meno il barocco intrico politico. Gli stessi dieci saggi, che potrebbero rappresentare un ponte verso un governo bipartisan, diventano una delle tante bizzarrie per prendere tempo e rinviare le scelte vere, quelle che producono una maggioranza e un governo. No, non siamo l’Olanda. Ma non siamo nemmeno la Grecia, dove Syriza è stata messa in frigorifero dall’accordo tra conservatori e socialisti. Questa è l’Italia, il Bel Paese che continua vivere di illusioni.



La più pericolosa è che tutto vada avanti con il pilota automatico e si possa fare a meno del governo perché da una parte c’è un Parlamento che può legiferare e dall’altra c’è in Europa un super potere che guida l’Italia. Alibi perfetto per chi non sa come uscire da una crisi politica e istituzionale che è crisi di governabilità. Sì, di governabilità, non di rappresentanza come si è ripetuto a lungo. I guru dell’antipolitica, gli stregoni della campagna sulla casta hanno sbraitato contro la tecnocrazia, l’esproprio democratico, il golpe bianco. Poi, si sono fatte le elezioni politiche che hanno prodotto una nuova legittima rappresentanza, non un governo.

Il parlamento robot è un’altra balla, perché se la sede del potere legislativo non è in grado di esprimere una maggioranza che sostenga un esecutivo, va sciolta. In un mese di vita, con 700 e rotti disegni di legge depositati a vario titolo dai parlamentari dei vecchi e screditati partiti, i teorici dell’autogestione delle Camere non hanno presentato nessuna proposta, né hanno votato alcunché.

Ma non funziona nemmeno l’etero-governo europeo. La convinzione comune (esaltata da alcuni, esecrata dai più), è che Bruxelles e Francoforte ci hanno chiuso in una gabbia di ferro. Con il Fiscal compact siamo stati espropriati della politica di bilancio mentre la Bce sottraeva una volta per tutte la facoltà di stampare moneta, potere fondamentale del sovrano, popolo o monarca che sia. E’ vero, l’obbligo costituzionale al pareggio di bilancio e la marcia ventennale verso la riduzione del debito fin sotto il 100% del Pil non lasciano alternative al risanamento dei conti pubblici. Niente pranzi gratis, niente assistenzialismo finanziato in disavanzo cioè emettendo nuovi debiti, insomma la fine di quel regime introdotto dagli anni ’70 in poi.

Colpa dell’euro? Non esattamente. Perché pochi ricordano che l’andazzo grazie al quale il debito pubblico è salito tra il 1980 e il 1990 dal 70% al 120% del prodotto lordo è finito nell’ormai lontano 1992 con il collasso della lira e del sistema politico che lo aveva prodotto. La memoria è corta. Ma non per chi compera i titoli italiani a medio e lungo corso e intende garantirsi che saranno rimborsati.

Detto questo, è falso che tutti gli spazi siano stati occupati dagli eurocrati. L’Italia oggi ha un avanzo primario (cioè al netto degli interessi) vicino al 3% del Pil. A fronte, c’è un costo del debito che resta superiore ai 5 punti di Pil per colpa della differenza con i tassi internazionali. Se si riesce a ridurre quest’onere, è possibile usare una parte del surplus per finanziare la crescita e, per questa via, ridurre ulteriormente il deficit dello Stato. Dunque, siamo ancora liberi di scegliere. Se ne siamo capaci e se facciamo le scelte giuste.

Lo sblocco dei fondi che la Pubblica amministrazione deve alle imprese (si parla di 40 miliardi su 90 totali) farà rialzare il disavanzo, ma finché rimane sotto il 3%, è gestibile. Sarà questo l’ultimo atto del governo Monti? Certo, dovrà mostrare grande perizia tecnica e politica. Non possiamo nemmeno contare sempre e soltanto su Mario Draghi. Nell’estate del 2012 ci ha salvato dal tracollo attraverso un’astuta e coraggiosa politica fatta di annunci (“Faremo tutto quel che è necessario per salvare l’euro, proprio tutto”) e di innovazioni istituzionali, come lo scudo salva-stati. Non bisogna dimenticare che ciò è stato possibile anche grazie alla non opposizione di Angela Merkel. Anzi, molto più di un tacito accordo se la Cancelliera ha incassato senza colpo ferire persino il no della Bundesbank.

Le conseguenze di quella svolta estiva durano ancora, ma si stanno esaurendo. E nella Ue balzano in primo piano le divergenze di fondo. Quelle tra instabilità perversa del sud e stabilità fanatica del nord; tra paesi competitivi e non; tra debitori e creditori; tra mercati finanziari e tra banche. Insomma, tutti i nodi strutturali finora rinviati.

Niente più pilota automatico, dunque, né in Italia, né in Europa. Sull’uno e sull’altro fronte torna in primo piano la politica, perché lo stato d’eccezione è destinato per sua natura a durare poco. La politica, cioè nel nostro caso un governo capace di pilotare il Paese fuori dalla recessione e giocare la sua partita in una Bruxelles paralizzata dalle elezioni tedesche. Si sa già che il prossimo Consiglio europeo non deciderà nulla e si aspetta settembre per capire se Angela Merkel governerà ancora e con chi, magari alla guida di un’altra Grosse Koalition. Ma per noi sarà tardi: l’Italia non ha più tempo.