La crisi c’è ed è tangibile. Per dare delle risposte concrete agli italiani sempre più in difficoltà si è tornato a parlare di reddito minimo per le famiglie bisognose con figli. Ad annunciarlo il presidente del Consiglio, Enrico Letta: “Andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo a partire dai precari e si potranno studiare forme di reddito minimo per famiglie bisognose con figli”. Sulle modalità di questo provvedimento, che darebbe un po’ di ossigeno ai nuclei familiari c’è ancora incertezza, ma intanto abbiamo provato a capire con Giancarlo Rovati, professore di Sociologia generale all’Università Cattolica di Milano, quali potrebbero essere i futuri scenari se il reddito minimo venisse adottato.



Quanto siamo vicini alla proposta che ha fatto Beppe Grillo?

La proposta che ha fatto Grillo non specificava i termini entro cui sarebbe stata realizzata, né del resto Letta ha specificato in che cosa consisterà questa misura. Tutte queste esperienze sul piano pratico si legano ad alcuni parametri. Innanzitutto qual è l’importo minimo necessario da erogare alle famiglie in funzione dei carichi famigliari. Tutto questo dovrà essere ben definito nel provvedimento. Potrebbero nascere soluzioni molto diverse tra di loro a seconda di come si risolveranno questi aspetti.



Ci sono state in passato esperienze simili?

Sì, noi abbiamo delle esperienze già effettuate nel nostro Paese di reddito minimo di inserimento (RMI), agli inizi degli anni 2000. Si fece una sperimentazione e poi venne abbandonata quella strada perché non aveva prodotto i risultati attesi.

In Italia esistono delle province che hanno adottato un provvedimento simile?

C’è un reddito minimo in vigore in Trentino Alto Adige, in particolare nelle province autonome di Trento e Bolzano: si tratta di due distinte misure. Ma in certi casi è risultata una misura abbastanza generosa, tanto che si è anche cercato di disincentivare le persone beneficiarie con soluzioni alternative affinchè fuoriescano dalla misura di sostegno.



Lei, in generale, cosa pensa del provvimento annunciato da Letta?

Ritengo in ogni caso che sia fondamentale dedicare questo sostegno alle famiglie, indipendentemente dalla fascia d’età dei beneficiari, perché in passato, per esempio con la social card, che è una misura molto limitata, si erano incluse soltanto le persone oltre i 65 anni e le famiglie con eventualmente bambini in età non superiore ai 3 anni. Questo è stato un parametro molto selettivo. Immagino che quando si parli di reddito minimo si guardi all’intera popolazione bisognosa e all’interno di questa si dia un adeguato peso ai carichi familiari.

Secondo lei, visto che Letta non ha ancora chiarito le modalità di questa misura, quali sarebbero i parametri più adeguati, anche considerando il momento in cui ci troviamo?

L’Istat stima che le famiglie in stato di povertà assoluta sono passate negli ultimi 5 anni dal 4% al 5,5%. Si potrebbero quindi utilizzare come termine di riferimento per definire il reddito minimo le soglie di povertà assoluta calcolate tenendo conto dell’età dei singoli e anche il costo della vita nelle diverse aree territoriali del Paese, distinguendo tra grandi, medi e piccoli comuni, ma questo è solo un termine di riferimento. Un dettaglio di questo tipo risulterebbe molto complicato per l’effetto di eventuali trasferimenti… Detto questo, però, una base di partenza per stabilire l’importo potrebbe essere la stima della soglia di povertà assoluta effettuata dall’Istat: non è una soglia bassa e quindi bisognerà mettere in conto tutte le risorse necessarie. In passato si era stimato che il costo di una misura nemmeno troppo estesa come questa costerebbe tra un punto e un punto e mezzo di Pil, che vorrebbe dire circa 9 miliardi di euro.

 

Questa misura dovrebbe essere adottata in modo permanente o temporaneo?

È una misura che viene adottata in tutti gli altri paesi europei, quindi potrebbe essere tranquillamente una misura strutturale. Solitamente il nostro tallone d’Achille sta nell’accertamento degli aventi diritto, quella che si chiama tecnicamente la prova dei mezzi. Si è usato per altre misure l’Isee (l’indicatore della situazione economica equivalente), però tutti riconoscono che questo indice ha molti limiti e bisognerà in effetti accompagnare il varo di questa misura anche con la sua revisione.

 

Questa misura come si coniuga con lo Ius soli?

Sono cose assolutamente diverse. Lo Ius soli ha a che fare con i diritti di cittadinanza e cioè il riconoscimento della cittadinanza italiana a coloro che sono nati in territorio italiano indipendentemente dalla provenienza dei genitori.

 

Non si rischia, se si concedesse lo Ius soli, di squilibrare il sistema, concedendo anche alle famiglie straniere un reddito minimo?

Ricordiamoci che la social card era riconosciuta anche a cittadini di altri paesi, purchè residenti in Italia da un certo numero di anni, era sganciata dalla cittadinanza italiana.

 

Il sistema, dunque, potrebbe sostenere il mix tra lo Ius soli e il reddito minimo?

Intanto bisogna conoscere i parametri e capire a chi verrà concessa la misura, perché sicuramente c’è un problema di dimensioni del budget. In Italia abbiamo 5 milioni di immigrati, molti di questi sono sotto le soglie di povertà ufficiali. Non è indifferente decidere se questa misura viene estesa solo ai cittadini italiani oppure anche a coloro che non sono cittadini italiani ma risiedono in Italia da un certo numero di anni. Nel caso del Trentino Alto Adige è previsto che l’accesso alla misura richieda almeno 5 anni di residenza nella provincia. A livello nazionale, non si potrà certamente concederla a chiunque senza debite garanzie di stabilità nel territorio.

 

(Elena Pescucci)