Lasciate ogni speranza voi che entrate: “L’inflazione scesa ancora” e la previsione di ripresa nel secondo semestre “è soggetta a rischi al ribasso”. L’euro “non è una porta girevole” da cui si entra e si esce a piacimento. E “gli eventi di Cipro rinforzano la nostra determinazione a sostenere l’euro”, ma non tutti visto che la decisione iniziale dell’Eurogruppo su Cipro, controfirmata dalla Bce, che prevedeva perdite anche sui depositi bancari sotto i 100.000 euro “non è stata una mossa intelligente”.



Così parlò, deludendo le speranze delle Borse, Mario Draghi nel giovedì dei governatori. E quel richiamo alla “mossa non intelligente” su Cipro fa suonare un campanello d’allarme: il governatore della Bce è stato costantemente informato delle trattative in corso con Nicosia? Oppure l’Eurogruppo guidato dal pittoresco Jeroem Djissembloem ha fatto tutto da solo o informato solo le controparti tedesche? Draghi è stato scalzato, per l’occasione, da Jorg Asmussen, il membro del direttorio della Bce di nomina tedesca? O è stato messo in minoranza, costretto a togliersi un sassolino dalla scarpa nella conferenza stampa? Senza voler eccedere nella dietrologia, il sospetto è che qualcosa si sia incrinato negli equilibri ella Bce che avevano consentito a Draghi, con il pieno appoggio di Angela Merkel, di sostenere il programma Omt, cioè gli acquisti di titoli italiani e spagnoli sul mercato.



Intanto, mentre il governatore della Bce dava il via alla consueta conferenza stampa mensile di Francoforte, Mervyn King chiudeva una delle ultime riunioni del board della Bank of England sotto la sua direzione. In attesa di cedere lo scettro della banca centrale più antica del pianeta a un oriundo in arrivo dal Canada, Mark Carney, che approderà a Londra nel prossimo luglio con un mandato forte: faccia quel che deve o anche di più pur di sgominare la recessione.

In estate si avranno già i primi riscontri della svolta di ieri della Bank of Japan. Si pensava che Haruhiko Kuroda, sbarcato per volere del premier Shinzo Abe alla testa del board della banca centrale, avrebbe dato prova di diplomazia di fronte ai colleghi, per anni fedeli compagni del governatore uscente Shirakawa, aperto oppositore della svolta espansiva chiesta da Abe. Al contrario, Kuroda ha subito schiacciato il pedale dell’acceleratore.



Tra le principali misure figura l’ampliamento dell’acquisto dei bond governativi, inclusi quelli a lunga scadenza, e di altri asset finanziari più rischiosi al ritmo annuale di circa 50.000 miliardi di yen (circa 420 miliardi di euro). Una sorta di terremoto che ha già prodotto i primi effetti sullo yen. Ma siamo solo agli inizi. La strategia di Kuroda è infatti solo uno dei tre pilastri della politica che, secondo il premier, potrebbe far uscire il Giappone da una crisi che dura da una generazione.

Alle mosse di espansione monetaria, simili a quelle già adottate da Washington, seguiranno iniziative in materia di politica economica, con l’obiettivo di mettere in moto la domanda pubblica in attesa che ripartano i consumi. Una strada che gli Usa, paralizzati dal braccio di ferro sul budget, ancora non possono percorrere ma che di sicuro non dispiace a Obama. Non a caso, a sorpresa, la Casa Bianca ha aumentato le dotazioni alle imprese che lavorano per il servizio sanitario pubblico. Infine, Abe promette interventi a gamba tesa sul mercato del lavoro, la struttura dei salari e la liberalizzazione del mercato osteggiata dagli apparati economici più tradizionali. Non a caso, tra le prime decisioni di Abe figura la riapertura delle trattative per la caduta delle barriere doganali con gli Stati Uniti.

Insomma, una strategia a tre gambe che ha un illustre precedente storico: tra il 1931 e il 1936 il ministro delle Finanze Korekiyo Takahashi adottò una politica espansiva, abbandonando il gold standard ed emettendo i bond necessari per fornire allo Stato i mezzi sufficienti per fare una robusta politica della domanda. Il risultato? “Takahashi – ha detto tempo fa Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve – trovò una soluzione brillante che fece uscire il Paese dalla crisi”. Speriamo che la storia non si ripeta fino in fondo: il ministro venne assassinato da ufficiali inviperiti per il taglio alle spese di riarmo del Sol Levante. La lezione, comunque, resta valida: per uscire dalla crisi una politica aggressiva della banca centrale è necessaria ma non sufficiente. Occorre pure un’azione energetica di spesa pubblica, in grado di far ripartire la domanda, e le riforme necessarie per migliorare l’efficienza del sistema Paese, tagliando le spese improduttive.

Purtroppo Mario Draghi non ha a disposizione le armi necessarie. La Bce dispone di margini di manovra, ben limitati, in materia di politica monetaria. E Draghi li ha usati, finora, per condurre una politica espansiva entro confini segnati dalla pressione della Bundesbank. Come dimostra la scelta di spingere le banche a rimborsare in anticipo i quattrini ricevuti grazie ai prestiti Ltro riducendo la massa monetaria, mentre, al contrario, le altre banche centrali aumentavano la liquidità. Ma la sostanza della politica che, almeno finora, ha salvato l’eurozona, resta: “Grazie al programma Omt che impegna la Bce nel sostegno ai paesi in difficoltà che chiedono aiuto, i tassi d’interesse sono scesi in Spagna e Italia”.

Di più Draghi non può fare. Oltre a auspicare le riforme che i singoli paesi si ostinano a non fare. Ma consapevole che la partita si fa sempre più difficile. I partner del Nord Europa non si fidano più delle reali volontà di spagnoli e, soprattutto, degli italiani. E in questa cornice il ruolo di un banchiere centrale si fa improbo. Beato Kuroda, samurai che dispone di tre spade. O mister Carney cui verrà concessa, come a James Bond, la licenza di uccidere la recessione. Herr Draghi rischia di avere a disposizione una lama spuntata. Nulla di più.