«La moneta unica sarà fatale per le nazioni più povere, perché devasterà le loro economie inefficienti». (Margaret Thatcher, 1990). Già me li vedo, lassù, i tre uomini della sua vita in trepidante attesa di riabbracciarla. Vedo Sir Denis Thatcher, suo marito, scegliere i gemelli migliori e passare un velo di Arlington Cologne sulle gote dopo la barba. Me lo vedo Arthur Seldon, suo fidato consigliere economico, attenderla impaziente per discutere con lei del disastro economico che l’euro è riuscito a portare in Europa, carico di fogli e di idee. E mi vedo lui, l’amante politico, Ronald Reagan, dinoccolato e sorridente come un cowboy dall’aria malandrina, fare avanti e indietro per ingannare l’attesa, con un tambler di bourbon in mano. Voglio vederla così la morte di Margaret Thatcher, un ritorno agli affetti più cari per la donna che la pubblicistica dell’ideologia in servizio permanente effettivo aveva bollato come crudele, senza cuore, affamatrice di popolo, boia dei minatori e via così, di luogo comune in luogo comune.
Lei che aveva un cuore grande diviso a metà: una parte per gli affetti, la più nascosta e intima come aplombe britannico impone. Una parte, visibile, quasi roboante nel suo essere parossisticamente en plein air, per il suo amato Paese, quella Gran Bretagna che aveva preso per la mano nella condizione di grande malato d’Europa – famosa “British disease” – e aveva trasformato in un decennio nella locomotiva del continente. La “Lady di ferro” era il suo soprannome, frutto di un carattere inflessibile e di una determinazione e forza di volontà che spianavano le montagne: lei, però, Margaret Hilda Roberts, era solo “la figlia del droghiere”, accusa che l’establishment del Partito conservatore le muoveva per cercare di frenare la sua inarrestabile ascesa al potere all’interno di un’aristocrazia vecchia e imbelle che la ragazza di Finchley avrebbe spazzato via con pragmatismo e sprezzo del compromesso.
Lei, nata il 13 ottobre 1925, quando primo ministro era Stanley Baldwin, è sempre stata fiera di essere “la figlia del droghiere”, perché questo significava lavorare sodo, risparmiare, non fare debiti e non parlare di cose che non si conoscono. Come diceva Arthur Seldon, il suo consigliere economico, orfano e allevato da una famiglia ebrea nel nord di Londra, «solo chi nasce povero può capire di economia, perché conosce i problemi della gente». Lei non era povera, era la middle class di provincia, il Lincolnshire profondo e conservatore, lontano anni luce sia dai prodromi della swinging London in arrivo, sia dai titoli nobiliari e dagli agi ereditari di troppi incapaci per censo. Lei era cresciuta dietro il banco di una drogheria e da lì aveva imparato a fare politica, vedendo aumentare o calare i clienti, le loro disponibilità di spesa, ascoltando i problemi.
Quando nel 1959 fu eletta deputato nessuno credeva che quella donna esile dallo sguardo che incuteva rispetto sarebbe stata la creatrice della più grande rivoluzione liberale del Novecento, la “blue revolution”, il cosiddetto thatcherismo, la cui natura e missione sta tutta nella sua più celebre frase: «Non esiste la società, esistono individui». Quando le fu affidato il primo incarico ministeriale, all’Istruzione nel governo presieduto da Alec Douglas-Home, fu subito chiaro cosa l’avrebbe attesa: venne definita dai giornali di sinistra, “Maggie la taglialatte”, un’affamatrice di bambini. Il perché è presto detto: eliminò il latte gratuito nelle mense scolastiche, garantito ai bambini di ogni fascia sociale, in modo che con i soldi racimolati fosse permessa l’esenzione totale dal pagamento per i figli di famiglie disagiate. Ecco perché “taglia-latte”, ideologia in servizio permanente effettivo, appunto.
Margaret Thatcher guidò il Paese come primo ministro, l’unica donna della storia britannica, dal 1979 al 1990, un periodo che le fu sufficiente per rivoltare la Gran Bretagna come un calzino, lei che si era laureata in chimica presso il Somerville College dell’università di Oxford e fin dai tempi degli studi si occupò attivamente di politica, diventando presidente di un’associazione studentesca conservatrice. Cosa fece la Thatcher in concreto? Poche, semplici cose. Libero mercato, ovvero porre la libertà come baluardo per una società che solo attraverso il concetto di proprietà sarebbe diventata sia più prospera, sia più responsabile. Prese l’enorme patrimonio immobiliare pubblico e lo rese acquistabile, ma non da speculatori della City (che attraverso le sue riforme, trasformò nella prima piazza finanziaria d’Europa, in grado di dare lavoro a un inglese su cinque, a vario livello), bensì da operai attraverso mutui agevolati: «Se una cosa è tua, la tratti con più cura. E questo vale sia per la casa, che per la società», diceva difendendo la sua scelta.
Privatizzò e smantellò, dove serviva farlo, il disfunzionale sistema industriale pubblico, a partire dalla compagnia aerea di bandiera, la British Airways, il colosso energetico della British Gas, la principale azienda di telecomunicazioni, la British Telecommunication, la British Steel, la più importante industria produttrice di acciaio, fino alle miniere di carbone di Galles, vere e proprie creatrici di debiti a cielo aperto. Fu quello, il grande passo della Thatcher, più della reazione all’invasione delle Falkland del 1982 da parte della giunta militare argentina (di cui, muovendole guerra, decretò la morte, ma si sa, a sinistra le giunte militari fanno schifo solo se poi ribaltate da guerriglieri comunisti).
Tra il 1984 e il 1985, la Thatcher ingaggiò un durissimo braccio di ferro contro il sindacato dei minatori e il suo arcigno leader, Arthur Scargill, destinato a fare la fortuna di cantanti, scrittori e registi per almeno un decennio. Nacque addirittura una sorta di filone musicale anti-Thatcher, il cosiddetto “red wedge” (il cuneo rosso, nome mutuato da un opera di Kandinsky), ensable artistico che vedeva uniti nomi del calibro di Paul Weller, Elvis Costello, gli Smiths, Billy Bragg e molti altri, i quali dedicarono alla Lady di Ferro perle di sensibilità artistica come “Tramp the dirt down” in cui si prefigurava gente che avrebbe danzato sulla sua tomba o “Margareth on the guillottine”, in cui si auspicava la sua decapitazione in stile presa della Bastiglia.
Il mondo intellettuale, quello che a Londra abitava a Holland Park o Notting Hill e a Milano in zona Brera, applaudiva compiaciuto. Non il cosiddetto proletariato di cui si autoproclamavano cantori e difensori, però, non a Tower Hamlets o a Coventry o Birmingham. Quando la battaglia fu vinta e le miniere chiuse, di quella lotta restò la retorica. Nel 2005, però, con enorme onestà intellettuale, in occasione del ventennale degli scontri per la difesa delle miniere, il quotidiano leftist Guardian andò a intervistare alcuni ex minatori. E cosa scoprì? Che grazie alle liquidazioni più buonuscita molto generose concesse e grazie al programma di aggiornamento e reinserimento sociale messo in piedi dal governo Thatcher, la gran parte di quei lavoratori ora operava nel volontariato, presso onlus o centri di aiuto e ascolto nelle loro comunità: «Un po’ meglio che marcire in miniera», disse onestamente uno di loro. Ma si sa, di quella battaglia di libertà, prima sociale che economica, restano solo film amari come “Grazie, signora Thatcher” e tanta, troppa retorica.
Altra grande battaglia è stata in campo macroeconomico, dove si è verificato un passaggio dalla politica fiscale volta al controllo della domanda aggregata all’applicazione di una politica monetaria rigorosamente ispirata alla stabilità. In politica fiscale, l’obiettivo era quello di ridurre il disavanzo pubblico. In materia di tassazione, ci si riprometteva di ristabilire gli incentivi al lavoro, al risparmio e all’investimento, attraverso tagli a tutte le aliquote, in modo particolare quelle più alte. La filosofia alla base di questi provvedimenti era che ristabilire gli incentivi fosse più importante della ricerca dell’equità. Ma il campo in cui è stata davvero una campionessa è stato, come scrive Patrick Minford, quello delle riforme microeconomiche, o delle politiche dell’offerta: «Dopo la campagna del 1979-82, volta all’abbattimento dell’inflazione, intraprese una riforma senza sosta per rivitalizzare l’economia dell’offerta, con leggi specifiche su regolamentazione dei sindacati, privatizzazioni, deregulation, riforma finanziaria delle amministrazioni locali, edilizia, riforme radicali delle tasse e molto altro».
Margaret Thacher, poi, saprebbe come mettere a posto i vari Barroso e Van Rompuy, esattamente come fece nel giugno 1984, al congresso per il bilancio finanziario europeo a Fontainebleau, quando la Lady di Ferro pronunciò la famosa frase «I want my money back!» («Rivoglio indietro i miei soldi!»), riferendosi al 50% dei finanziamenti per l’Europa che finiva al settore agricolo. Con questa regola, i paesi più attivi nell’agricoltura (soprattutto la Francia, padrona di casa del congresso) beneficiavano di un importante contributo alla propria economia, a danno di quelli meno attivi come proprio il Regno Unito, che di fatto sostenevano l’altrui settore primario. Il Primo Ministro pretese e ottenne una revisione di tale accordo, che finì per creare l’assegno britannico, il cosiddetto “rebate”, in pratica una forte riduzione del contributo della Gran Bretagna all’agricoltura europea, una compensazione tra dare e avere al bilancio.
Certo, la Thatcher fece anche degli errori, non ultimo quello che le costò la carriera politica nel 1989, quando in seguito alla frenata nella crescita economica (causata dagli alti tassi d’interesse), introdusse la cosiddetta poll tax, una tassa calcolata in base alla popolazione, uguale per ogni cittadino residente nel Regno Unito, in netto contrasto con il suo programma liberista e avversa soprattutto alle classi meno agiate. In risposta, oltre 18 milioni di persone diedero vita a uno sciopero fiscale che avrebbe dovuto riportare la Thatcher a più miti consigli: lei, invece, come molte altre volte in passato, non arretrò di un millimetro, aprendo le porte alla sfiducia nel partito e spalancando quelle di Downing Street a John Major. La stessa porta che, varcando per la prima volta undici anni prima, la videro parafrasare San Francesco: «Dove c’è discordia, che si possa portare armonia. Dove c’è errore, che si porti la verità. Dove c’è dubbio, si porti la fede. E dove c’è disperazione, che si possa portare la speranza». Lei, che teneva Von Hayek sul comodino ed ebbe sempre l’onestà di dire che «un primo ministro è già fortunato se riesce a realizzare il 25% del suo programma».
Ora vai Maggie, i tuoi uomini ti aspettano. La terra ti sia lieve. Il mondo, se ci riesce, ti sia debitore riconoscente e silenzioso. Almeno ora.