La media industry italiana è in crisi. Ha i conti in rosso, è fatta di aziende piccole, a corto di capitali strategici, lontane dagli standard di offerta e di efficienza della concorrenza internazionale. Il settore ha troppi addetti, mediamente un po’ anziani e quindi già un po’ analfabetizzati di ritorno; pagati un po’ troppo e con contratti molto rigidi. In molti casi neppure la proprietà sembra aiutare molto, in termini di reale imprenditorialità-media, di capacità-volontà d’investimento o di conflitti d’interesse: come nel patto Rcs, al Sole 24 Ore, ma anche là dove i padroni sono Silvio Berlusconi, la famiglia Agnelli, Carlo De Benedetti o Francesco Gaetano Caltagirone. Questa media-industry – dalla quale sia gli imprenditori che il sindacato dei giornalisti chiedono levando appelli al nuovo governo – presenta singolari somiglianze con un altro comparto del terziario italiano che affrontò una crisi epocale un quarto di secolo fa: quello bancario.



Negli anni ’80 le banche italiane erano tutte fondamentalmente non-imprese: anche le prestigiose Bin controllate dall’Iri, anche la loro blasonata controllata Mediobanca. Dalla Cariplo al San Paolo di Torino, fino ai Banchi di Napoli e di Sicilia – ma anche le Popolari maggiori, così come le piccole casse rurali – erano tutte burosauri zeppi di bancari-passacarte pagati per 16 leggendarie volte all’anno, con annesso mutuo low-cost. Non era una “industry” che potesse pensare di affrontare la concorrenza che si andava aprendo con l’euro: zero dimestichezza con una gestione del risparmio che non fosse il deposito; pochissima pratica a far credito senza garanzie reali o con strumenti di mercato; competizione impedita dal divieto di aprire sportelli, ma frenata anzitutto dal fatto che la redditività non era un obiettivo e un parametro di confronto. In Borsa erano quotate poche banche e non erano contendibili; lo Stato era un padrone quasi unico – e quindi anomalo – e la Banca d’Italia amministrava il business attraverso un fitta maglia di regole amministrative. La patrimonializzazione non era certo granché, così come i livelli di innovazione tecnologica.



Questo sistema non aveva alternative a cambiamenti drastici: e lo sapevano bene gli uomini di Stato che s’incaricarono di disegnare una grande riforma. La firmarono, nel 1990, Guido Carli e Giuliano Amato, ma nel “concept” politico-finanziario ebbero un ruolo almeno pari Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi. La ricetta fu chiara. Il sistema andava ricostruito – e lo fu – nella proprietà: via l’Iri e avanti la Borsa per Comit e Crediti; via il Tesoro (e le nomine del Cicr) dall’Imi, dalla Bnl, dalle Casse di risparmio e dagli altri gruppi pubblici e spazio alle Fondazioni da far crescere come investitori istituzionali legati alla sussidiarietà federalista. Ma soprattutto: avanti con fusioni e acquisizioni (anche ostili, o con l’ingresso di partner bancari e assicurativi europei) per aumentare velocemente le dimensioni del sistema, attirare nuovi capitali da investire e manager di nuova generazione capaci di riorganizzare.



I vecchi bancari-burocrati vennero esodati in via progressiva, con accordi sindacali e fondi-esuberi (finanziati essenzialmente da imprese e lavoratori); e furono sostituiti da “professionisti della finanza” completamente nuovi, a cominciare dai promotori finanziari. Banche che prima non c’erano (prima fra tutte Mediolanum) divennero concorrenti di prima fascia a fianco dei “campioni nazionali” che si formarono con almeno tre ondate successive di aggregazioni.

Non è questa la sede per un bilancio – tuttora molto dibattuto – di questo gigantesco processo di trasformazione, non solo economica (chi segue queste note sa comunque che la valutazione di chi scrive è positiva, anche e forse soprattutto dopo la grande crisi finanziaria). Ai fini di questa suggestione comparativa conta che quel cambiamento si sia effettivamente realizzato, in tempo reale, sulla base di un disegno-Paese messo a punto da forze politiche e Banca d’Italia, cui le banche di allora diedero una risposta sostanzialmente adeguata. Non era affatto scontato.

Di più: lo Stato ci puntò indubbiamente importanti agevolazioni fiscali per scorpori e aggregazioni, ma erano il contrario dei “sussidi”. Il “nuovo” sistema bancario a matrice imprenditoriale risultò poi finanziato soprattutto dal mercato. E chi comprò un’azione del Credit all’Ipo del dicembre 1993 a poco più di un euro se l’è vista restituire da Alessandro Profumo a sei euro poco più di cinque anni dopo, al debutto dell’euro. UniCredit è diventata la prima banca a realizzare una fusione transnazionale nell’eurozona. E a guadagnarci – per molti anni – sono state soprattutto le nuove fondazioni bancarie, che hanno potuto resistere a tutti i prevedibili tentativi di ri-statalizzazione.

Il settore media italiano, per sopravvivere, ha bisogno di una scossa analoga. Ha bisogno di nuove proprietà, di nuovi capitali, di nuovi dirigenti, di nuove professionalità, di nuove strutture di costi, di nuove strategie. Ha bisogno di fusioni e di partnership estere che agitino management e redazioni. Ha bisogno di dar spazio a concorrenti emergenti. Ha bisogno, chissà, anche di sperimentare azionisti nuovi come le fondazioni (il colosso tedesco Frankfurter Allgemeine è controllato dalla Fazit Stiftung).

Forse ha bisogno anche di aiuti pubblici momentanei: perché – come le banche – anche gli intermediari di informazioni sono aziende “un po’ più uguali delle altre”, senza le quali una democrazia non è tale. Ma gli aiuti vanno decisi da una guida pubblica degna di questa nome e vanno meritati prima che richiesti o pretesi da chi poi li riceve. Editori e giornalisti finora non hanno fatto nulla per meritarseli e quando ripartono dalla domanda di rifinanziamento puro e semplice dei prepensionamenti non mostrano di meritarseli. Il contratto nazionale può essere per tutti l’occasione giusta – forse l’ultima, forse obbligata come la legge Amato-Carli per le banche di allora – per tirare fuori qualche buona idea. E non solo.