Entro il 31 maggio la Commissione Ue dovrà decidere se l’Italia potrà rientrare o meno dalla procedura d’infrazione. Il nostro, infatti, è uno dei 17 Stati membri finiti nel mirino della Commissione per il fatto di avere un deficit superiore al 3% del Pil. La procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia è stata avviata nel 2009, e per essere chiusa il deficit deve essere al di sotto del 3% del Pil nel 2012, 2013 e 2014. Secondo la Commissione europea, prima dell’approvazione del decreto che sbloccava i 40 miliardi di euro di debito dello Stato verso le imprese, il rapporto deficit/Pil in Italia era stimato pari al 2,1% tanto nel 2013 quanto nel 2014. Per il commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn, l’Italia sarebbe sulla buona strada per rientrare dalla procedura d’infrazione, anche perché “non guardiamo solo il target del 3%. E’ un target nominale, lo sforzo di risanamento dei paesi è più importante del loro valore nominale”. Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Emilio Colombo.

Ci vuole spiegare che cosa cambierà per l’Italia con il rientro dalla procedura di infrazione?

La procedura di infrazione è legata fondamentalmente al rispetto del patto di stabilità Ue, siglato un anno e mezzo fa. Si tratta di vincoli formali tali per cui tutti i paesi il cui deficit oltrepassa la soglia del 3% del Pil, sono soggetti a una procedura di infrazione. I vincoli sono mediamente flessibili, in quanto all’infrazione è associato un piano di rientro, quantificato con obiettivi sia in termini di deficit che deve essere ridotto ogni anno sia in termini di tempo, cioè in quanti mesi o anni questo rientro deve essere effettuato. Questo piano di rientro è negoziato dai paesi all’interno del sistema europeo di Ecofin e Consiglio dei ministri.

Per quale motivo all’Italia sono state richieste misure di austerity che non sono state presentate ad altri paesi?

Le regole non sono uguali per tutti, in quanto sono stabilite in maniera generica. Per ogni Paese è quindi decisa una procedura di rientro. Ciascuna procedura è diversa da Stato a Stato, sia perché ciascuno di esso è diverso e ha problematiche che lo contraddistinguono, sia perché ciascuno di essi avvia la negoziazione in una fase diversa. Quando l’Italia ha negoziato per la prima volta la procedura di rientro, c’era in carica il governo Monti. Alla Spagna è stato dato più tempo per rientrare, mentre all’Italia ne è stato dato di meno.

Ciò non è contrario a una sorta di uguaglianza tra i paesi membri?

Ciò è frutto da un lato di una volontà del governo Monti di mostrarsi credibile, dall’altra del fatto che la negoziazione italiana è avvenuta in un contesto meno favorevole per i paesi euro deboli di quello in cui è avvenuta la negoziazione spagnola. L’Italia è stato il primo Paese ad affrontare una grande crisi politica e di credibilità interna. Nell’ultima fase del governo Berlusconi c’era una forte opposizione e un certo scetticismo dell’Europa sul modo in cui l’Italia aveva gestito la politica economica fino ad allora. Lo spread aveva raggiunto quota 500 per questo motivo. Il governo Monti ha quindi scelto l’approccio più duro, che è consistito in una manovra pesante e nel fatto di non chiedere aiuti Ue. E’ stato anche un modo in cui il governo Monti ha puntato ad acquistare credibilità.

 

Quanti soldi sono in gioco con la chiusura della procedura di infrazione?

La chiusura della procedura di infrazione permette al Paese di avere maggiore flessibilità nella gestione della spesa, in quanto l’infrazione blocca un certo margine di discrezionalità del governo nel cambiamento delle politiche concordate. Rimane comunque il fatto che il nostro margine di manovra è limitato.

 

Ritiene che le norme Ue sulla procedura di infrazione siano eccessivamente rigide?

Le regole dell’Ue tengono conto delle condizioni economiche. In presenza di una recessione forte come quella che c’è in Italia, il vincolo del 3% del Pil non vale più. Da un punto di vista tecnico, infatti, ogni volta che un Paese entra in recessione, il deficit cresce in quanto si pagano meno tasse per il fatto che il Pil scende e dunque ci sono meno entrate. Nel contempo si pagano più sussidi per disoccupazione e cassa integrazione. Il deficit ha quindi una dimensione ciclica evidente, in quanto cresce ogni volta che l’economia va male. In presenza di recessione le regole europee si allentano e l’Italia ha quindi un margine che si spiega con il fatto che oggi la nostra situazione congiunturale è peggiore rispetto a quella prevista l’anno scorso quando abbiamo attuato la manovra di rientro.

 

(Pietro Vernizzi)