Mentre il debito pubblico italiano fa segnare un nuovo record a 2.034,7 miliardi di euro (dato di marzo), crolla il numero delle compravendite di immobili (-27,5% nel 2012 rispetto al 2011) e i prestiti bancari a famiglie e imprese si contraggono ancora (-3,1% ad aprile). Tuttavia, l’inflazione, l’indice dei prezzi al consumo, scende ad aprile all’1,1% dall’1,6% di marzo. Quella che ha tutta l’apparenza di una buona notizia (un calo generale dei prezzi) non è in realtà tale, come ci spiega Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Professore, come dobbiamo interpretare questa pioggia di dati che sono stati diffusi ieri?

Aggiungono preoccupazione a uno scenario già di per sé preoccupante. Confermano che non c’è domanda nel sistema italiano (come peraltro accade anche nel resto d’Europa): la gente non consuma, non investe e non riceve segnali dalla politica che la inducano a scommettere sul futuro. Anche i dati relativi alla produzione industriale a livello europeo ci confermano del resto che non stiamo recuperando competitività rispetto al resto del mondo. Siamo un continente ormai in mano al resto del mondo, perché le uniche buone notizie sui mercati europei arrivano quando ci sono dati positivi in Usa, Cina e Giappone. Questo significa che siamo ancora più vulnerabili a una eventuale crisi degli altri. Il dato comunque più preoccupante è quello relativo all’inflazione.



Perché?

Perché che ci stiamo tranquillamente e allegramente avvicinando a quella soglia drammatica che si chiama zero, che separa l’inflazione dalla deflazione. Si potrebbe pensare che un tasso negativo non sia preoccupante. Questo è vero solo quando non si è in periodi esattamente come quello attuale, dove cioè i tassi di interesse che manovra la banca centrale hanno un pavimento limite dello 0%.

Ci spieghi meglio questo passaggio.

Mettiamo che la Bce decida di portare il tasso nominale allo 0%. Questo è un bene fino a quando i prezzi crescono, perché il tasso di interesse reale risulta negativo. Se invece i prezzi scendono, il tasso reale risulta essere positivo (con tutte le conseguenze sul credito). Infatti, il tasso di interesse reale è uguale al tasso nominale meno l’inflazione (e in algebra, la sottrazione di un numero negativo si trasforma in somma). Quindi avere deflazione con un tasso zero non è un bene, anche perché a quel punto la banca centrale non ha più possibilità di intervenire per abbassare ulteriormente i tassi. In buona sostanza si viene a perdere l’uso della politica monetaria.



Cosa bisogna fare per evitare tutto questo?

Anzitutto dobbiamo usare in maniera più aggressiva i “cannoni” della politica monetaria. I programmi anti-spread della Bce, che di fatto non sono mai stati usati, vanno slegati dall’adozione di misure di austerità da parte dei paesi beneficiari. Questo, però, potrebbe non bastare a risolvere il problema, perché la moneta fatta circolare in più, dato il clima di sfiducia che c’è in giro, verrebbe accantonata, non spesa, risparmiata. Tanto più che con la deflazione un euro messo da parte oggi vale di più se speso domani, senza nemmeno bisogno di portarlo in banca. Serve quindi che il nostro continente torni a domandare alle imprese.

 

Una delle richieste delle imprese in questo momento è abbassare il costo del lavoro. Il governo Letta sembra pronto a varare misure per detassare i contratti dei giovani…

Queste sono buone proposte, ma non servono in periodi come quello che stiamo attraversando, avrebbero solo effetti marginali, perché le aziende non vogliono assumere. Le imprese hanno bisogno di clienti. E l’unico cliente che in questo momento può intervenire senza doversi preoccupare del clima di fiducia è rappresentato dalla domanda pubblica, dagli investimenti pubblici, dalle spese che servono per risollevare l’economia. Non sto ovviamente parlando di quella spesa che corrisponde a sprechi.

 

Con il debito pubblico in crescita e i vincoli europei al deficit usare questa leva sembra però impossibile da usare.

L’economista francese Jean-Paul Fitoussi ha spiegato bene la situazione in cui ci troviamo: le uniche armi che ci servono per combattere la crisi sono tenute sotto chiave. A questo punto non resta che compiere un assalto all’armeria, controllata dal guardiano dell’Europa del Nord. Per farlo c’è un solo modo: un’alleanza dei paesi del Sud Europa per battere insieme fortemente i pugni sul tavolo e dire basta alla Germania, chiedendo che si restituita loro la politica economica e assicurando che quando l’emergenza sarà passata queste armi verranno riposte, in modo che non creino più inflazione. È arrivato il momento di dare risposte, perché la gente è molto stanca. Non è vero che l’unica soluzione è uscire dall’euro: è la medicina ultima se non si capisce con le buone maniere che la situazione si può risolvere restando all’interno dell’Eurozona come ho detto.

 

Dunque è inutile attendere l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione europea o riuscire a ottenere quel che hanno avuto Francia e Spagna, cioè una proroga dei tempi per riportare il deficit sotto il 3% del Pil?

Avere 3-4 miliardi non serve assolutamente: occorre mettere in gioco poste da 30-40 miliardi. E ci deve essere un approccio europeo, non dei singoli paesi. E quelli che rassicurano di più i mercati devono fare lo sforzo maggiore: la Germania deve abbassare la pressione fiscale sui suoi lavoratori affinché acquistino anche beni importati, magari italiani. Da parte nostra, tutte le tasse che abbiamo alzato finora le abbiamo usate per far salire l’avanzo primario e ripagare il debito, mentre ora dobbiamo usarle per aumentare la domanda pubblica.

 

Su quale tipologia di spesa punterebbe di più?

Sono preoccupatissimo dalla scomparsa dei giovani dal nostro mercato del lavoro, o perché vanno all’estero o perché non cercano più un’occupazione. Come dicevo prima, detassare i contratti dei giovani non avrà grossi effetti. Ritengo che insieme a maggiore spesa pubblica per acquisto di beni, servizi e investimenti occorra lanciare un grande programma di Servizio civile.

 

Che cos’ha in mente esattamente?

Un Servizio civile temporaneo e non ripetibile di uno-due anni (finché non è passata la tempesta) all’interno della Pubblica amministrazione per i giovani. Dovrebbero essere pagati mille euro al mese, in modo che acquisiscano competenze per il loro cv, siano degnamente retribuiti per il loro lavoro e stimolati a far bene. Ormai i giovani sono i primi a esprimere un forte disagio: alcuni coi piedi, andandosene, altri in modo violento, magari andando a rinforzare l’economia criminale. Occorre quindi intervenire e dare loro delle risposte.

 

(Lorenzo Torrisi)