Il Prodotto interno lordo italiano si è ridotto dello 0,5% nel primo trimestre dell’anno, un po’ meno rispetto al trimestre precedente (-0,9%), ma è presto per dire se si tratta di una svolta o no. Resta il fatto che siamo alla settima discesa trimestrale consecutiva. In Francia la contrazione nello stesso periodo è stata dello 0,2%, e si tratta del terzo ribasso negli ultimi quattro trimestri. In Germania si segnala un leggero incremento (+0,1%) dopo il -0,6% nell’ultimo trimestre 2012. In sostanza, chi più chi meno, i 17 paesi dell’Eurozona sono tutti in recessione: -0,2% è il dato complessivo. Sotto zero per sei trimestri, un record.



Le cause sono diverse: le esportazioni verso i paesi extra euro battono la fiacca, soprattutto a causa del rallentamento cinese, la domanda interna per consumi si è ridotta per le politiche di bilancio restrittive; la domanda per investimenti è in discesa e langue anche in Germania. Dunque, i tre motori del ciclo economico sono tutti in panne nello stesso momento. Per fortuna, la Banca centrale europea ha pompato liquidità nelle banche, ha sostenuto il mercato dei titoli pubblici e ha abbassato i tassi di interesse.



Mario Draghi ha fatto molto, può fare ancora qualcosa, allentando ulteriormente le redini. Ma non può gravare sulle sue sole spalle prima il salvataggio poi il rilancio dell’economia europea. I limiti alla politica monetaria sono già emersi e non per il suo potenziale pericolo inflazionistico. Tutti i parametri di M (l’offerta di moneta) sono sotto controllo. Come ha spiegato Draghi più volte, la moneta creata dalla Bce non ha alimentato l’inflazione, semmai ha rimpiazzato quella distrutta dalla recessione, impedendo così un collasso (alias deflazione). No, il problema è che, soprattutto nei paesi del sud, i tassi di interesse stanno sfuggendo al controllo di Francoforte. Cioè le banche non prestano denaro o se lo fanno chiedono un prezzo troppo caro, nonostante siano state finanziate dalla Bce a un tasso d’interesse minimo.



La catena di trasmissione, insomma, si è bloccata. A questo punto, è assolutamente necessario cambiare spalla al fucile e mettere mano alla politica fiscale (cioè di bilancio). E qui casca l’asino. L’Unione europea non ha una politica di bilancio perché non ha un vero bilancio. Mentre le tasse vengono decise a livello nazionale. Di fatto, però, in questi anni tutti i paesi, in perfetta sintonia, hanno realizzato una restrizione ai loro bilanci nazionali aumentando le imposte e riducendo le spese, anche quelle per investimenti.

Questo aggiustamento simultaneo si è rivelato un clamoroso errore. Non solo perché, come ha dimostrato il Fmi, il cosiddetto acceleratore fiscale è cambiato (un taglio dell’1% riduce il Pil tra lo 0,9% e l’1,7%, non mezzo punto come era un tempo), ma per l’effetto valanga provocato dal fatto che tutti hanno tagliato nello stesso momento; anche chi, al contrario, poteva e doveva espandere.

L’operazione sostegno spettava alla Germania e ai paesi nordici che hanno rimesso i conti pubblici in ordine prima degli altri e hanno accumulato riserve grazie all’attivo della bilancia dei pagamenti. E’ l’invito rivolto dal Fmi e dal G20 al quale Berlino ha fatto orecchie da mercante per paura di riesumare lo spettro dell’inflazione. Un timore del tutto infondato, frutto di una ossessione pericolosa. Non è questione di unione incompiuta, di moneta senza sovrano o quant’altro.

Certo, se ci fossero gli Stati Uniti d’Europa e funzionassero come gli Stati Uniti d’America le cose andrebbero meglio. Proprio ieri è arrivata da Washington la notizia che il deficit pubblico si è ridotto più del previsto (è sceso al 4% sul Pil) grazie alla ripresa. È vero, va calcolato l’effetto degli incrementi fiscali decisi da Obama. Ma l’aumento delle tasse non si è trasformato in una riduzione della domanda. Consumi e produzione hanno continuato a crescere, mentre si è ridotta la spesa assistenziale. Insomma, si sta avviando quel circuito virtuoso tanto agognato da Paul Krugman nella sua campagna contro il dogma dell’austerità.

Bisogna aggiungere che non è solo opera della politica fiscale. Negli Stati Uniti si sono rimessi in moto gli investimenti privati a differenza dall’Europa dove il ciclo perverso della paura e della sfiducia spinge a non spendere, a tenere i denari in cassaforte per motivi precauzionali. Dunque, se l’Europa fosse l’America con il suo pragmatismo e il suo potenziale tecnologico, non staremmo così nei guai. E tuttavia questa volta è inutile cercare scuse o alibi. È stato commesso un errore clamoroso per colpa delle autorità di Bruxelles e di quelle nazionali. A cominciare dal governo di Berlino.

Non si tratta di demonizzare la Merkel. Il vero problema è che ancora una volta la Germania si è rivelata un gigante economico e un nano politico. Gigante economico, nonostante soffra dei primi sintomi recessivi, perché la forza del suo complesso bancario-industriale non può essere contestata, né va sottovalutata, e perché anche grazie alle riforme giuste realizzate nel tempo giusto, può vantare di aver raggiunto la piena occupazione. Difficile, dunque, impartire lezioni di politica economica a Berlino. Ma anche nano politico e qui sì, davvero, c’è molto da dire e anche parecchio da fare.

Come può la Germania sottrarsi alle sue responsabilità? Dice il governo: ma noi esercitiamo una funzione stabilizzatrice e abbiamo un ruolo pedagogico, spingendo i paesi in dissesto a mettere ordine in casa propria. Dall’ordine di ciascuno deriva l’ordine di tutti. Non è così. Non è con le prediche che si colma il gap produttivo tra le diverse aree dell’Eurolandia. E non è facendo tutti la stessa cosa che si esce dalla crisi. Al contrario. Come nelle sabbie mobili, ci vuole una forza trainante che tenga i piedi ben saldi su un terreno solido. Il coordinamento delle politiche fiscali, alfa e omega di ogni cooperazione internazionale, è più che mai la chiave nell’Unione europea e, ancor più, nell’area euro.

Ora che la temuta recessione generale è arrivata per davvero, la testardaggine teutonica lascerà il posto al realismo? La tentazione tedesca è di attendere le elezioni di settembre. Nessuno se la sente di invertire la marcia, tanto meno la Cdu incalzata da Alternative, il nuovo gruppo euroscettico che sta prendendo forza nello schieramento conservatore. Ma i tempi dell’economia non aspettano quelli della politica. E se la contrazione europea trascina giù anche la Germania, allora la Merkel perderà per non aver capito quando era il momento di cambiare.

Che cosa può fare il governo italiano? Non molto in termini di economia domestica. Può sbloccare gli investimenti e in parte lo sta facendo, può mettere in circolazione un po’ di reddito riducendo le imposte, però i margini sono davvero esigui. Può tagliare la spesa corrente per recuperare risorse, ma attenzione, i fanatici dell’accetta lo sanno che nel breve periodo ha effetto recessivo?

Letta può senza dubbio iniettare fiducia, risorsa davvero scarsa, per spingere i privati a investire (cosa che hanno fatto troppo poco anche prima della crisi). Tuttavia, non c’è dubbio che la partita si gioca a Bruxelles. E qui l’Italia, anche grazie ai progressi fatti (insieme alla Germania è l’unico Paese a vantare un avanzo pubblico primario, cioè al netto degli interessi) ha in mano buone carte per pretendere che Berlino allarghi i cordoni della borsa.

Naturalmente, se sarà chiusa la procedura d’infrazione, se la spesa in deficit verrà davvero bloccata, se le convulsioni interne al Pd e al Pdl non indeboliranno il governo mettendo con le spalle al muro il presidente della Repubblica che ne rappresenta il perno.

Tanti se. Ancora troppi.