Non c’è stato nessun intoppo, ma neppure alcuna novità particolarmente degna di nota: il Consiglio dei ministri di ieri si è concluso come da copione, producendo il rinvio dell’Imu di giugno, il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga e il taglio dello stipendio dei ministri. Il governo, poi, si è impegnato, entro il 31 agosto, a riformulare la fiscalità generale sugli immobili, ipotizzando una deducibilità per quelli legati alle attività produttive. Abbiamo chiesto ad Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica presso l’Università di Milano Bicocca se ci si può ritenere soddisfatti.

Come giudica il frutto del Cdm di ieri?

È evidente che si tratta di provvedimenti provvisori che servono al governo per prender tempo in vista di soluzioni definitive. Non si tratta di nulla di risolutivo, né di particolarmente rilevante. Tuttavia, prendiamo atto del fatto che la grande cautela con cui si muove è, tutto sommato, positiva. È un buon metodo e, per lo meno, impedirà di riproporre gli errori del governo precedente che, per eccesso di sicurezza, ha infilzato una serie consecutiva di errori economici disastrosi.

Al di là della cautela, resta il fatto che la cassa langue. Al prossimo Cdm ci saranno ancora risorse disponibili?

Sappiamo tutti quali misure occorrono per reperire risorse: dalla vendita del patrimonio pubblico immobiliare alla vendita di asset pubblici, passando per il taglio di Cda ed enti ridondanti. Si tratta di misure urgenti, per le quali occorre una certa dose di coraggio. È troppo presto per dire se questo governo ne avrà abbastanza. Credo che dovrebbe iniziare a mettere in campo qualcuna di queste misure, per vedere fin dove riesce a spingersi e se le forze politiche che lo sostengono lo appoggerebbero nell’iniziativa.

Da dove dovrebbe iniziare?

Vendere aziende pubbliche sensibili sarebbe piuttosto complicato. Ci si nasconderebbe dietro la foglia di fico del ruolo strategico per l’Italia. Si potrebbe, invece, iniziare a vendere qualche immobile improduttivo. Meglio ancora provare a vendere qualche impresa pubblica, magari di modeste dimensioni. Il governo potrebbe convincere i partiti a seguirlo se illustrasse l’opzione nella giusta prospettiva.

Ovvero, quale?

L’unica alternativa per fare cassa consiste nell’aumentare le tasse. Ma questo non è più possibile. Si è ormai raschiato il fondo del barile. Un ulteriore aumento sarebbe insostenibile. Di questo, per lo meno, l’attuale governo sembra esserne convinto. Di conseguenza, se non si vuole appesantire ulteriormente il carico contributivo o, addirittura, iniziare a tagliere le tasse, a partire dal cuneo fiscale, non resta che vendere beni pubblici.

 

Non pensa, in ogni caso, che si potrebbero diminuire fin da subito le tasse sulle imprese, nella previsione che il minor gettito venga recuperato da un aumento del Pil?

Alleggerire strategicamente le aliquote oggi produce più gettito dopodomani. Ma domani avremo sforato rispetto al rapporto deficit/Pil. Quindi, non possiamo. Le risorse vanno trovate necessariamente. Considerando tale vincolo, tuttavia, esiste ancora una strada: possiamo fare un’emissione straordinaria di titoli di Stato.

 

Non è già abbastanza alto il nostro debito?

Sì, ma all’Europa interessa pressoché esclusivamente il rapporto deficit/Pil, e non il rapporto debito/Pil. Se si sfora il tetto del 3% rispetto al primo si apre una procedura di infrazione. Nel secondo caso (benché, oggettivamente, aumentare ulteriormente il debito non sia un bene) non succedere nulla. Ora, considerando che gli interessi sui titoli pubblici, attualmente, sono decisamente bassi, lo Stato poterebbe usare un’emissione straordinaria per onorare i debiti che ha nei confronti delle imprese.

 

E questo non aumenterebbe il rapporto deficit/Pil?

No, perché stiamo parlando di fatture pregresse. Si tratta, quindi, di spese che sono già state contabilizzate nel disavanzo, benché non siano state effettivamente pagate alle imprese. Una manovra di questo genere consentirebbe di immettere nell’economia 70-80 miliardi di liquidità, evitandoci di non rispettare le norme europee. Oltretutto, permetterebbe di tagliare alcune spese future: l’azienda che chiude perché non riesce a ottenere ciò che gli spetta, infatti, produrrà nuova disoccupazione di cui lo Stato dovrà farsi carico.   

 

(Paolo Nessi)