Il mondo è lo stesso di un po’ di mesi fa. Siamo passati dalla crisi greca e da quella cipriota che hanno regalato grandi emozioni ai grafici e messo in mostra i nervi tesi del mercato, ma il mondo è lo stesso e l’economia anche. Certamente bisogna capire di che mondo stiamo parlando, perché il Nuovo Continente e il Vecchio Continente non sono mai stati così lontani. Negli Stati Uniti hanno sconfitto la crisi, è ufficiale, fragile ma ufficiale. L’hanno sconfitta perché le banche Usa sono state apparentemente risanate (concediamoci il dubbio che un nuovo trader di un’enorme banca d’affari possa aver sforato nuovamente i limiti imposti procurando un nuovo buco miliardario). L’hanno sconfitta perché questo è il quarto anno che il Pil a stelle e strisce cresce. L’hanno sconfitta grazie all’inflazione: hanno invaso l’economia di denaro nuovo, bello, a volte solo elettronico, altre stampato sulla carta prodotta nel Massachusetts dalla cartiera Crane & Co.



Il denaro elettronico è stato donato (leggi prestato per sempre a tassi inesistenti) dalla Federal Reserve alle banche private, che l’hanno poi usato per acquistare titoli di Stato e innumerevoli altri investimenti finanziari che hanno portato ossigeno ai loro bilanci, risanandoli. Il denaro in carta del Massachusetts è stato immesso nell’economia reale comprando titoli di Stato direttamente, riducendo i tassi di interesse e invogliando i “taxpayers” a non tenere risparmi che renderebbero pochissimo, ma a spendere e a far girare l’economia.



Insieme a sgravi fiscali e incentivi di ogni genere, questo ha avuto buoni risultati anche sulla disoccupazione, tagliata dal 10% all’attuale 7,5%. La spesa pubblica ha quindi svolto un ruolo fondamentale, al costo di un deficit arrivato al 10% del Pil, ma nessuno ha protestato e la percentuale sta recuperando ormai costantemente veleggiando verso un 5%. Tutto ciò è probabilmente fatto di cristallo, perché forse crollerebbe se tutto questo denaro in eccesso fosse riportato nei forzieri della Federal Reserve, ma non c’è motivo per cui al momento debbano farlo. Anche perché in memoria del 1937, quando il Paese crollò in una nuova crisi economica a seguito della riduzione della massa monetaria pompata per uscire dalla crisi dei primi anni ’30, credo che gli americani non ci penseranno neanche e si godranno sereni la loro ripresa.



Tutto un altro mondo è il Vecchio Continente, che ha sposato l’austerity come matrimonio non d’amore e che, in aggregato, mostra numeri preoccupanti, poco incoraggianti, non beneauguranti e soprattutto che evidenziano il fallimento di questa politica. Il Pil della zona euro è tornato a comprimersi dallo scorso anno e la disoccupazione è a un impressionante 12%. Certo, anche in Europa la banca centrale ha aperto i rubinetti della liquidità, ma lo ha fatto in modo evidentemente sbagliato e non assecondato da politiche economiche e fiscali degli stati.

Il risultato è stato che quella liquidità è rimasta alle banche private, che hanno guadagnato grazie all’investimento di questi fondi in titoli di Stato (ma senza risanare solidamente i bilanci) e non è arrivata all’economia reale, i consumi sono depressi e tutto si contrae. Ovviamente la contrazione del Pil porta anche a una riduzione delle entrate fiscali e il deficit ne è una parte sempre più grande. Mentre dire Usa ha un senso politico, dire Eurolandia è fumettistico. I 17 stati che hanno adottato l’Euro sono come 17 coinquilini che non hanno una propria casa o perché non possono permetterselo o perché vogliono approfittare delle scorte sui ripiani degli altri nella dispensa.

Dobbiamo quindi rompere questo aggregato e andare a vedere i singoli paesi, trovando una Germania che ha mancato di far crescere il Pil solo in questo trimestre, dopo 3 anni di successi piccoli o grandi, di fronte a un’Italia che ha perso più del 12% del suo prodotto negli ultimi 18 mesi. Troviamo una Germania che gode di una disoccupazione del 6,9% e un’Italia che piange un 11,2%. Troviamo la prima con un avanzo di bilancio ottenuto senza troppe lacrime o sangue, una seconda che sostiene un disavanzo del 3% sulle spalle di una popolazione in ginocchio. Troviamo un grafico del Dax che segue quello dell’SP500 con la stessa didascalia “Massimo Storico” e un FtseMib che vale solo una piccola parte di quanto valeva prima della crisi.

Possiamo provare a giustificare questa differenza di trend dicendo che le banche, società che più hanno sofferto durante la crisi, sono quelle che pesano di più sul FtseMib. Possiamo forse provare a dire che gli scandali internazionali hanno ridotto la fiducia degli investitori esteri nel Bel Paese. Credo invece che la Borsa di Milano rifletta sia una situazione politico-economica stagnante che la mancanza di prospettive per il futuro. Il problema è che, grazie all’Euro, siamo costretti a prendere la stessa medicina che prendono nel centro Europa, sebbene siamo affetti da due malattie diverse. La cura di stampo statunitense non è stata messa in pratica in Europa 4 anni fa e difficilmente sarà messa in pratica ora che la Germania non ne ha bisogno.

Invito quindi a non domandarci il perché di questa differenza rispetto agli altri indici europei o addirittura mondiali, ma propongo a chi ha investimenti di gioire del rialzo degli ultimi 45 giorni che ha elevato il FtseMib del 17%. Suggerisco inoltre di considerare che questo mondo è lo stesso degli ultimi mesi, anche di quando l’indice valeva 17% in meno e valutare che se prossimamente non si troverà ulteriore entusiasmo, oltre a quello dato dalla liquidità di Draghi, questa potrebbe essere stata una buona occasione per vendere.