La recente nomina del diplomatico di carriera brasiliano Roberto Carvalho de Azevêdo a capo della Wto, l’organizzazione che ha come fine lo sviluppo del commercio mondiale, è un avvenimento molto importante che non può passare senza alcune considerazioni di ordine generale. Taluni osservatori hanno segnalato questa nomina come una vittoria dell’America Latina. In verità, il problema è più complesso e di non facile definizione.



I candidati in lizza fino all’ultimo erano il suddetto brasiliano e il messicano Herminio Blanco. È pur vero che il Messico non è Sud America, ma è senza dubbio uno dei paesi destinato a entrare nel novero dei Brics (Brasil, Russia, India, China and South Africa) e che ha da decenni stretto con gli Usa e il Canada un accordo che è stato molto importante per la liberalizzazione del commercio, ossia il Nafta, che per taluni, Usa in testa, dovrebbe essere l’anticipazione dell’Alca, ossia di un accordo di scambio trans-americano che abbatterà le tariffe di commercio da Vancouver a Ushuaia, creando, con il costruendo Trans Pacific Act, l’area di libero scambio più grande al mondo. Ma il Messico, anche quello del neo Presidente Enrique Pena Nieto, che ha rinvigorito un vetusto Pri e sostiene all’interno una politica di economia mista, è sempre stato un paladino del libero scambio e ha di fatto sempre agito sotto l’influenza degli Usa, anche se con un’insofferenza e con scoppi di ribellione che risalgono sino agli anni Venti del Novecento, gli anni della grande rivoluzione messicana di cui, del resto, il Pri è l’erede.



Il Brasile è cosa totalmente diversa. Innanzitutto ha una più che secolare cultura imperiale. L’impero spagnolo sotto l’impulso di Simon Bolivàr si frantumò e ne scaturirono molti stati. Quello portoghese, con una monarchia che ivi si era insediata dopo la rivoluzione liberale di Cadice del 1821, non si sgretolò mai neanche quando la monarchia lasciò il posto alla repubblica. Appena il Brasile ha trovato una stabilità politica, ossia con Ferdinando Cardoso circa 25 anni orsono, si comporta internazionalmente come un impero: tratta naturalmente con i più potenti Stati Uniti, ma ha relazioni ben consolidate anche con tutti i cosiddetti “stati canaglia” del mondo: Cuba, l’Iran, il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador. E naturalmente la Russia. E non ha mai rinunciato alla sua potentissima economia mista, dove l’industria di Stato svolge un ruolo oramai unico in tutto il mondo, più che in Francia.



Se si esclude la Cina comunista, solo la Russia di Putin può essere accomunata al Brasile per la presenza dello Stato imprenditore. Ma la cosa più interessante che rende la nomina di Azevedo molto importante è che nelle politiche commerciali il Brasile non solo, come il Giappone, non esita a condurre una premeditata guerra valutaria, ma segue altresì quelli che un tempo, quando l’economia aveva ancora un respiro teorico, si chiamavano i “principi della scuola di Cambridge” degli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, ossia un mirato protezionismo diretto a sostenere le industrie nazionali e la produzione agricola in base alla politica economia prescelta dal governo.

Come è noto questi sono i principi che, in un modo o nell’altro, con leggere sfumature, seguono tutti i cosiddetti Brics, nonostante gli sforzi militari e finanziari che soprattutto gli Usa mettono in moto per far loro mutare politica commerciale. Il fatto che un brasiliano, tanto più diplomatico di carriera e quindi portatore di un orientamento imperiale di gran classe, sia ora a capo della Wto non potrà non avere importanti conseguenze.

In primo luogo, è molto probabile che la tendenza emersa negli ultimi dieci anni nel mondo globalizzato di perseguire accordi commerciali bilaterali anziché multilaterali prosegua, con inevitabili conseguenze sul commercio mondiale, che avrà più ostacoli e quindi più occasioni per essere frenato. La seconda conseguenza sarà che, così come accade da qualche tempo in Europa in merito all’austerità (che si rivela un orpello ideologico senza basi teoriche che favorisce solo la Germania e le grandi banche), anche la teoria della globalizzazione pienamente dispiegata, che pur ha avuto importanti esiti positivi, inserendo miliardi di persone nel mercato capitalistico, lasci il posto a una globalizzazione temperata sul fronte del libero scambio con conseguenti cadute del commercio mondiale. Ciò, del resto, si sta già verificando per via della recessione mondiale deflattiva.

Le conseguenze sull’economia europea saranno profonde. L’ideologia totalitaria, secondo cui crescono solo i paesi che esportano, si troverà dinanzi alle prime difficoltà, così come del resto rendono manifesti i dati sulla futura situazione economica tedesca, che sono veramente inquietanti. Non solo manca la domanda aggregata, ossia i mercati interni, ma diminuirà la domanda internazionale a frattali, con la riduzione degli spazi esportativi, e la crescente fatica di trovare sempre nuove nicchie per l’esportazione. Insomma, il punto archimedico su cui poggia l’economia globale comincia a spostarsi dalle spalle del gigante liberista alle spalle del gigante neo-protezionista.

Naturalmente di neo-protezionismo integrale non vi è bisogno. Non usciremmo più dalla recessione. Ma chiunque conosca la storia del mondo, soprattutto quella dell’America Latina, sa che la prima risposta alla crisi è sempre stato il “crecimiento hacia adentro” e non il “crecimiento hacia afuera”. È una vecchia storia, che ora torna alla ribalta con aspetti profondamente nuovi: quelli di nazioni che ora sono medie o grandi potenze regionali e con le quali gli Usa dovranno fare i conti. L’Europa naturalmente continuerà a stare a guardare.

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