Il Rapporto Annuale Istat 2013, presentato ieri alla Camera, stimola la riflessione in tutti i campi della politica economica poiché documenta che i problemi dell’economia italiana sono strutturali, non congiunturali. Come abbiamo più volte sottolineato su queste pagine, l’Italia ha dato prova di scarsissima efficienza adattiva alle trasformazioni dell’economia internazionale in corso dagli anni Novanta. Nell’ultimo decennio, la produttività del lavoro è aumentata appena dell’1,2% rispetto a un incremento del 9,5% nell’eurozona nel suo complesso. L’industria manifatturiera ha perso, nello stesso arco di tempo, un quarto circa del proprio fatturato; c’è stato, nell’ultimo anno, un miglioramento dell’export, ma riguarda solo una frazione del comparto industriale e ha effetti trainanti molto limitati. Tra il 2008 e il 2012, il Pil dell’Italia è diminuito del 6% circa, mentre quello della Francia è rimasto stazionario e quello della Germania è aumentato del 2,5%. Si è ridotto il Pil pro-capite e, quindi, il reddito disponibile delle famiglie con effetti negativi su consumi, investimenti e tasso di risparmio.



In questo quadro, sono migliorati i saldi di finanza pubblica, si è registrato un forte avanzo primario e si è ridotto l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, grazie a un leggero contenimento delle spese correnti e a un forte inasprimento della pressione tributaria e contributiva; a ragione della contrazione del Pil, il rapporto tra stock di debito e prodotto nazionale è cresciuto nonostante l’aumento della pressione fiscale e contributiva e i “tagli” (lineari o meno) alla spesa pubblica.



L’aspetto più grave – come sottolinea sovente lo stesso Capo dello Stato – è l’andamento del mercato del lavoro. Il Rapporto dedica al tema un capitolo, il terzo, particolarmente interessante. Non ci si limita a evidenziare quello che già sappiamo: sono diminuiti gli occupati, è cresciuta la disoccupazione, resta difficile la situazione giovanile. Ma – ed è questo un suo pregio – il documento invita a guardare con gli occhiali appropriati un aspetto che, secondo alcuni media, sarebbe positivo: l’aumento dell’occupazione femminile (nonostante in Italia la quota delle donne occupate sia ancora di gran lunga inferiore alle medie dell’Ue).



I dati 2012 mettono in risalto un fenomeno per molti aspetti differente da quello delineato nei manuali di economia del lavoro: a fronte di una riduzione delle opportunità dal lavoro (e dell’incremento di disoccupati), non si contrae – come ci aspetterebbe – l’offerta perché uomini e donne scoraggiati smettono (come da manuale) di cercare un impiego (ed escono, per così dire, dal mercato del lavoro), ma la forza di lavoro si espande con l’ingresso di donne.

La ragione di fondo è la contrazione del reddito familiare, spesso a causa della perdita del lavoro da parte dell’elemento più forte della famiglia. In parole povere, in molte aree (specialmente nel Mezzogiorno) e in numerosi settori (tipico il caso dell’edilizia), il marito non ha più un’occupazione e la moglie cerca di contribuire alla sopravvivenza della famiglia spesso in attività che richiedono una bassa qualifica professionale.

A questi aspetti già molto gravi, se ne aggiungono altri: la polarizzazione delle tipologie contrattuali (aumentano gli occupati a tempo parziale, a tempo determinato a collaborazione), le crescenti incertezze sul futuro per chi entra in Cassa Integrazione (un terzo circa va verso la disoccupazione), la ricomposizione dell’occupazione verso le fasce più anziane (a ragione delle modifiche della normativa previdenziale), la riduzione (di ben sei punti) del tasso d’occupazione degli stranieri e la concentrazione delle donne immigrate in due sole attività (assistenti domiciliari, ossia badanti, e collaboratrici domestiche). Cresce, naturalmente, il fenomeno dei Neet – coloro che non lavorano, non studiano, non sono in formazione.

Anche se il documento non contiene previsioni, ma ha solo lo scopo di fornire una radiografia, appare evidente, da un lato, che nel breve e medio periodo la situazione occupazionale non è destinata a migliorare (ma a peggiorare ulteriormente) e che non basteranno le politiche del lavoro -né quelle di sostegno del reddito, né quelle “attive” di formazione e ricollocazione – a effettuare una pur piccola svolta.

Inutile, quindi, gingillarsi con “staffette” tra anziani e giovani e progetti simili. Il nodo sta nel rimettere in moto l’economia produttiva: smaltire i debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese, allentare la credit crunch, semplificare la burocrazia e simili. Altrimenti, l’Italia non riprenderà a lavorare.