“Questa volta è diverso” è il titolo ironico di un bestseller dell’economia curato dalla coppia Reinhart-Rogoff. I due, si sa, sono da mesi alla berlina: la tesi, da loro elaborata sulla base di riscontri storici, per cui i paesi con un rapporto debito/Pil superiore al 90% sono condannati a non avere crescita è stata demolita dopo che sono stati scoperti alcuni imbarazzanti errori di calcolo e una scelta arbitraria del campione esaminato. Ma l’infortunio dei due economisti, che costerà loro un probabile premio Nobel, non cancella il valore dell’intuizione alla base del loro lavoro: in economia i corsi e i ricorsi storici si susseguono con una regolarità impressionante. E c’è chi sostiene, in Borsa come nella gestione del debito pubblico, che “stavolta è diverso…”. Anche per questo motivo sono in molti a guardare agli sviluppi della crisi degli anni Trenta, quando il mondo cercò a fatica di uscire dalla crisi in cui era precipitato nell’ottobre del ‘29. Le analogie, del resto, non mancano. Anzi, a ben vedere, sono numerose e inquietanti. Vediamone qualcuna.



1) Partiamo dal Sol Levante ove, con il tracollo improvviso del Nikkei, l’Abenomics si trova a fronteggiare la prima crisi dopo la decisione di allentare, a suon di sostegno monetario e di stimoli inflazionistici, l’economia che ristagna da un quarto di secolo. Un incidente di percorso provocato dal rallentamento dell’economia cinese (al di là delle polemiche, ormai il fratello siamese del made in Japan ancor più degli Usa) e dalla minaccia della fine del Quantitative Easing della Fed, il vero motore dell’euforia dei mercati. Un incidente di percorso, per ora. Poi si vedrà.



La politica di Shinzo Abe ha un precedente ben preciso. All’inizio degli anni Trenta il Giappone, primo fra tutti, decise di rompere con la politica deflazionistica che aveva provocato tra il 1926 e il 1931 un calo del reddito di circa un terzo per le famiglie e l’esplodere della disoccupazione. Il ministro delle Finanza Takahashi Korekiyo (poi nominato governatore della Bank of Japan) avviò per primo una politica di riforme keynesiane: abbandono del sistema monetario aureo (sulla scia di Gran Bretagna e Germania), svalutazione dello yen, introduzione di un sistema di controlli sui cambi, incremento della spesa pubblica, con un occhio di riguardo al riarmo dell’esercito e della marina imperiale.



La svolta economica favorì la creazione di una nuova leadership economica e politica: i gunbtsu, combinazione tra i cartelli dell’industria chimica e meccanica pesante e l’elemento militare, decisivo nell’orientare le scelte strategiche del Paese. A livello di base, la nuova politica ebbe il consenso della piccola borghesia ma anche degli operai, uniti dall’odio per i vecchi zaibatsu, considerato i responsabili della crisi. Come andò a finire? Non bene. Korekiyo, una volta rimesso a regime il motore dell’economia, volle dar vita a una fase due, ovvero limitare deficit e spesa pubblica per rimettere a posto le finanze. Una scelta che gli costò la vita: il governatore venne ucciso in un blitz benedetto dall’esercito, che in Cina faceva le prove per la Seconda guerra mondiale.

The Economist ha di recente sottolineato la natura politica della scossa di Abe all’economia giapponese. Shinzo Abe è nipote di Nobusuke Kishi, governatore negli anni Trenta della Manciuria occupata dalle truppe imperiali. È un nazionalista convinto che intende riaffermare il primato del Giappone. L’Abenomics, è la tesi del settimanale, è la risposta al sorpasso del Pil della Cina, che ha spodestato Tokyo dal posto di seconda economia del pianeta e che, in parallelo, ha intensificato le sue mire imperiali: sulle isole Daoyu o Shensako (come le chiamano i giapponesi) o sulla stessa Okinawa.

Le analogie con il passato, per ora, si fermano qui. La Abenomics ha il pieno sostegno degli Usa, decisi a rafforzare il Giappone in funzione anticinese e però pronti a collaborare perché Abe vinca le elezioni a luglio e conquisti la maggioranza parlamentare necessaria per le riforme costituzionali. Tra queste figura la volontà di restituire all’imperatore il ruolo di Capo dello Stato.

2) Nel 1937 l’America precipitò di nuovo nella crisi economica e nel bear market azionario. Franklin Delano Roosevelt, dopo la scossa dei cento giorni e l’avvio di una politica espansiva (di molto inferiore agli sforzi dell’amministrazione attuale), decise che la fase dell’emergenza era definitivamente superata. Il reddito nazionale che era stato di 82 miliardi nel 1929 per poi cadere a poco più di 40 nel 1932 era risalito a 70 nel 1936, nonostante ci fossero ancora 7 milioni di disoccupati. Una situazione, fatte le debite proporzioni, assai simile a quella di oggi. Ma allora la Fed prese una decisione che si rivelò sbagliata: spaventata dall’inflazione creditizia salita a 30 miliardi di dollari, restrinse il credito e tagliò la spesa federale. Di colpo l’indice della produzione crollò da 117 a 76, i disoccupati aumentarono di altri 4 milioni.

Nel frattempo Roosevelt si concentrò nella lotta ai potentati economici: il 5% delle aziende controllava all’epoca l’87% del credito disponibile. Il Congresso creò una commissione per studiare la natura dei monopoli. Ma alla fine non venne preso alcun provvedimento. Non è difficile pensare che la levata di scudi contro la clamorosa elusione fiscale di Apple finisca nello stesso modo. Intanto, sul fronte della spesa pubblica, la situazione che si è determinata con la manovra di gennaio (cui si sta aggiungendo il sequester) crea un contesto simile a quello del 1937. L’unica differenza di nota è la politica espansiva della Fed. Ma crescono le pressioni su Bernanke perché riduca al più presto gli stimoli che hanno sostenuto le Borse di tutto il mondo senza che, in Europa ma non solo, la nuova liquidità arrivi ad alimentare gli investimenti delle imprese. Bernanke si è così spinto davanti al Congresso a sostenere che “già nei prossimi mesi” potrebbe ridurre gli acquisti della Fed sul mercato. La risposta è stata un brusco ribasso dei mercati. Forse era quello che il presidente della Fed si augurava per mettere a tacere i “falchi” che agitano lo spauracchio dell’inflazione.

3) E veniamo all’Europa. Per sconfiggere la deflazione in Gran Bretagna svalutarono rispetto all’oro nel 1931, pochi mesi prima del Giappone. In questo modo attutirono gli effetti della Grande Depressione in anticipo rispetto all’America di Roosevelt. Ma la Francia (vedi l’Unione europea di oggi) tentò di resistere. Le svalutazioni degli altri la rendevano sempre meno competitiva e la deflazione aveva creato crisi e disoccupazione, “ma un insieme di considerazioni di prestigio e un attaccamento ai principi – ha spiegato Alessandro Fugnoli – avevano indotto i governi a tenere duro e a sopportare un franco che nel frattempo era divenuto chiaramente sopravvalutato. Il Fronte Popolare, vincitore delle elezioni del maggio 1936, suscitò paure e fughe di capitali. A settembre il governo Blum capitolò, ultimo nel mondo, e lasciò andare il franco. Il nuovo spazio di libertà fu gestito nel complesso male, con aumenti salariali eccessivi che portarono a una svalutazione del franco, tra il 1936 e il 1938, del 70%. La classe media, impoverita, avrebbe più tardi in larga misura appoggiato il regime di Vichy. In sede di bilancio (provvisorio, come vedremo) è chiaro che il 1931 inglese corrisponde al 2009 americano, mentre il 1936 francese corrisponde al 2013 europeo e giapponese”.

4) L’Italia, in particolare, risulta essere a metà del guado; un Paese stressato dalle delusioni di una politica dell’austerità fallita perché basata solo sull’aumento feroce della pressione fiscale, senza tagli di spese (e di privilegi) e in assenza di riforme per aumentare la competitività, prende atto che la situazione internazionale offre oggi uno spiraglio per uscire dalla crisi. La Germania, più nei fatti che a parole, concede ai partner di allentare la morsa. La Bce può mettere in cantiere un nuovo taglio dei tassi già il prossimo 6 giugno. Si profilano all’orizzonte nuove misure monetarie espansive (gli interessi negativi sui depositi presso la Bce). Ma non è affatto detto che il Paese, più che mai insabbiato nei suoi veti incrociati, sappia sfruttare l’occasione.

“Non è trascurabile il rischio che un Paese come l’Italia faccia la fine della Francia tra il 1937 e il 1938” ha ammonito Fugnoli. Per sfuggire a questa sorte sarebbe necessario: a) una svalutazione dell’euro, evento cui probabilmente collaborerà la Germania per ridare ossigeno all’export; b) una forte manovra espansiva nell’ordine di 3-4 punti di Pil; c) un’azione di pulizia del sistema bancario, da liberare da incagli e sofferenze con una robusta operazione sul capitale e/o creazione di bad bank. Il tutto, naturalmente, sotto stretta sorveglianza Ue. Altrimenti, non resterà che porsi una domanda: fino a quando potrà reggere il quadro politico (ovvero la democrazia) di un Paese che non cresce da vent’anni, ha un giovane su tre disoccupato e ha la prospettiva di tornare, se tutto va bene, ai livelli di Pil del 2007 non prima del 2020?

5) Rileggere la storia serve. Ma non sempre. Almeno si spera. Il film degli anni Trenta non ci ha rivelato la ricetta per uscire dall’espansione monetaria senza far esplodere l’inflazione o ripiombare in una depressione ancor peggiore. Allora, a rispondere alla domanda, fu lo scoppio della guerra mondiale con il carico di rovine e distruzioni che comportò tra le altre conseguenze una politica fiscale monetaria di guerra. Poi scoppiò la pace. E l’America, forte della lezione del precedente conflitto, evitò la trappola dell’austerità: grazie alla financial repression riuscì a tenere bassi i tassi e a finanziare la crescita accelerata dell’economia che, a sua volta, portò a nuove entrate fiscali e all’eliminazione del debito di guerra. Come non era accaduto negli anni Venti, quando l’Europa scelse la strada dell’austerità.

Ma questo è un altro film. Per ora seguiamo, con rispetto e qualche paura, le alchimie di Ben Bernanke, la rinascita dei samurai e i primi passi, incerti, dell’Europa che vuol uscire dalle sabbie mobili della recessione. E speriamo che l’Italia non si fermi a parlare di porcellum e porcellini.