“L’Abenomics funziona” (Repubblica, 16 maggio). “Ma il vero rischio è l’Abenomics” (Repubblica, 24 maggio). Repubblica non c’entra, è solo un esempio. Hanno, abbiamo titolato tutti così. Mettendo nero su bianco che continuiamo a non (voler) capir nulla dell’interminabile (post)crisi: non preoccupandoci neppure più di cambiare radicalmente opinione su un macro-fatto globale a distanza di otto giorni. Ma chissà, forse – a modo nostro – abbiamo capito tutto, tanto che lo mettiamo nero su bianco. L’espansionismo monetario, la spesa pubblica in deficit, le svalutazioni competitive servono a gonfiare il Pil nel breve, brevissimo periodo: ma questo lo sapevamo già. Così come sappiamo che – comprensibilmente – questo è quello che vogliono i governi premuti dagli elettorati sfiancati dalla recessione, indotta da una crisi finanziaria che ha mandato all’aria i bilanci statali per salvare le banche “troppo grandi per fallire” e richiesto iniziale austerity fiscale, inizialmente benedetta da tutti i G20 e i Fondi monetari.
Quello che mostriamo di non voler intendere è che i mercati finanziari seguono a modo loro. Sono loro – più di imprese e consumatori, perfino più degli Stati neokeynesiani – a intercettare al volo i macro-flussi di liquidità messi in circolo dalle banche centrali con la motivazione (il pretesto?) di stimolare la ripresa e la crescita. È l’oligopolio finanziario che coglie in tempo reale il clima-annuncio del monetarismo espansionista e qualche macro-cifra “da vetrina” e investe massicciamente sui listini, facendo salire quotazioni e indici. Fino a che uno speculatore professionale non può non “prendere beneficio” (per sé e per i propri clienti) e la micro-economia reale dei mercati finanziari provoca scossoni (come quelli dell’altro giorno a Tokyo).
Giovedì il presidente della Bce, Mario Draghi, ha detto a Londra che «l’Europa ha ancora bisogno della City». La coerenza intellettuale del liberista Draghi è come sempre apprezzabile: ma l’Europa (e forse neppure il Giappone) oggi non ha – più – bisogno di mercati finanziari tanto grandi da non poter essere fronteggiati nella loro pretesa – strutturalmente fondata e quindi legittima – di “prendere beneficio” sempre dalle “asimmetrie” delle economie reali (imprese, consumi, circuiti di finanza pubblica). Come in altri appunti di questa rubrica, non si tratta di moralismo anti-mercato: è – ancora una volta – una constatazione e un tentativo analitico.
Lo abbiamo scritto in tempi non sospetti e lo ripetiamo a rischio di provocazione: la Merkenomics ha basi politico-economiche rigorose (con la moneta non si gioca, le finanze pubbliche devono essere equilibrate, le Aziende-paese devono essere competitive nei loro fondamentali di efficienza, flessibilità, qualità e innovazione). L’Obanomics (o meglio, la Bernankenomics) è invece oggettivamente servita solo a salvare i conti e le poltrone dei banchieri di Wall Street che hanno trasferito la crisi finanziaria provocata da loro sulle loro vittime (Grecia) e profittando poi dei tentativi europei di risanare l’eurozona per via fondamentale per atterrare altri sistemi-Paesi deboli (l’Italia è stato il caso più eclatante).
Anche in questo caso non formuliamo un giudizio (tanto meno polemico), ma un appello sì: smettiamola di accettare come fatto ineluttabile gli interessi dei mercati che continuano un atto puro e semplice di competizione politico-economica. E cessiamo di pensare che il “nemico” – almeno non quello principale – sia la Germania al centro dell’Europa.
Proprio da qui, in questi giorni, sta avanzando (controcorrente, ad esempio, rispetto a Basilea 3) una riforma del sistema bancario che punta a separare le attività di intermediazione del risparmio verso il credito alle imprese da quelle di investimento sui mercati, di portafogli propri e di ricchezze finanziarie private. Un tentativo economicamente pragmatico e politicamente mirato che viene subito bollato come ideologico e restauratore rispetto a “interessi del mercato” dati ancora per indiscutibili quattro anni dopo il crac Lehman.
Se le dimensioni reali, collettive, istituzionali delle democrazie economiche non si riprendono almeno un po’ di quella sovranità che – right or wrong – hanno ceduto negli ultimi trent’anni ai mercati finanziari divenuti egemoni, noi giornalisti continueremo a scrivere un giorno che tutto va bene perché il Pil trimestrale “da segni di ripresa” e la Borsa “vola” e il giorno dopo a titolare che “siamo sul baratro, eccetera eccetera”. Fino a che, sempre meno virtualmente entro i confini familiari di una stessa casa, un giovane disoccupato accoltellerà il padre che con lo spread a 575 ci ha guadagnato.