Il risveglio del Giappone (una crescita del Pil del 3,5% l’anno nell’ultimo trimestre, rispetto al 2,5% degli Stati Uniti e al -0,9% dell’eurozona; un tasso di disoccupazione del 4% rispetto al 7,5% negli Usa e al 12% nell’area dell’euro) è uno shock per gli economisti occidentali e i governi che davano il Sol Levante (in sonno da vent’anni) definitivamente spacciato e ormai “nella pace dell’avel”. Non tutti hanno pensato che il Giappone, con una popolazione sempre più anziana e un debito pubblico pari al 240% del Pil, fosse finito. In America, un conservatore come Ben Bernanke ha sempre pensato che prima a poi avrebbe suonato la sveglia. Delle stesse idee anche quella testa un po’ matta di Paul Krugman.
Sono atterrato per la prima volta a Tokyo nel lontano luglio 1970; da allora ho visitato più volte l’arcipelago; per un lungo periodo di anni, in Banca mondiale ho diretto una divisione dove c’era la più alta densità di giapponesi (compresa la mia assistente) in un’unità amministrativa dell’istituzione; non ho mai studiato la lingua, ma ne conosco alcune regole di base e qualche parola e sono un grande estimatore della cucina nipponica. Con queste credenziali, credo doveroso esaminare i punti salienti dell’Abenomics (chiamata così dal nome del Primo Ministro Shinzo Abe) e chiedersi se ci sono elementi che possono essere utili alla malconcia eurozona.
In primo luogo, occorre dire che Abe è un politico puro, per il quale la politica economica è unicamente strumento per un più vasto, e più profondo, disegno politico. La mente “tecnica” dell’Abenomics è Haruhiko Kuroda, a lungo alla guida della Banca asiatica per lo sviluppo, e chiamato da Abe alla presidenza della Banca nazionale del Giappone.
Per comprendere la strumentazione tecnica (per certi aspetti molto eterodossa), occorre delineare il disegno politico. Abe è alla guida di un Governo per la “rinascita” del Giappone: revisione della Costituzione del 1947 (scritta di proprio pugno dal Gen. Douglas MacArthur, capo dell’amministrazione provvisoria americana nell’immediato dopo-guerra); sostituzione della “armata di auto difesa” con una forza nazionale dotata di esercito, marina e aviazione; rivalutazione delle tradizioni civiche comunitarie (a cominciare dalla famiglia); rafforzamento della posizione centrale del Sol Levante (che, però, non si considera “asiatico”) nel Pacifico e contrapposizione alla Cina.
Un disegno conservatore o anche reazionario? Difficile rispondere. Da un lato, ci si collega alla più antica tradizione nipponica. Da un altro, ci si basa su “istituzioni inclusive” e si valorizza il cambiamento di ruoli (si pensi alla posizione delle donne) avvenuto nell’ultimo quarto di secolo. È, comunque, un disegno imperniato su “l’orgoglio di essere giapponesi”, che sta influenzando soprattutto le giovani generazioni, sino a qualche lustro fa in via di americanizzazione ma che oggi plasmano prassi occidentali con tradizioni e credenze profonde del Sol Levante. Non nascondo che questo disegno politico ha in germe un conflitto potenziale con la Cina per il primato nella parte settentrionale del Pacifico che bagna le coste asiatiche.
“L’orgoglio di essere giapponesi” – ci insegna la “neuroeconomia” – ha reso efficaci le misure tecniche concepite da Haruhiko Kuroda: a) un forte aumento della liquidità (raddoppiata in 12 mesi) con un deprezzamento significativo dello yen rispetto al dollaro Usa, ma senza effetti di rilievo sui prezzi; b) una dilatazione della spesa pubblica per investimenti al fine di utilizzare capacità produttiva non pienamente impiegata; c) un vasto programma di liberalizzazioni derivante dall’adesione alla Trans Pacific Partnership (Tpp), ossia un vasto mercato comune del Pacifico. Dei tre punti, il terzo è il più difficile a ragione della resistenza di lobby grandi e piccole, e soprattutto della burocrazia. “L’orgoglio di essere giapponesi” è la leva su cui Abe e Kuroda puntano per sconfiggere le resistenze.
Cosa può mutuare l’eurozona da queste strategie? Non credo che l’Europa sia pronta ad adottare politiche della moneta e del bilancio espansioniste, specialmente perché mentre oltre il 90% del debito nazionale giapponese è in mani nipponiche (e nonostante il livello elevatissimo non ci sono timori di solvibilità – i tassi d’interesse a lungo termine sono ancora inferiori all’1% l’anno), il debito degli europei è in mano di “foresti” diffidenti – come mostra il “tormentone spread”. L’eurozona potrebbe, però, mutuare il programma di liberalizzazioni imposto da una vasta zona di libero scambio, ma il negoziato per crearne una transatlantica è bloccato dalle resistenze francesi in materia di agricoltura e di “eccezione culturale” (vincoli alla liberalizzazione dell’audiovisivo).
Soprattutto l’Eurobarometro mensile e – quel che più conta – i risultati elettorali mostrano che oltre il 60% degli elettori dell’eurozona è fatto da “euroscettici” che imputano a un’unione monetaria, considerata mal concepita e frettolosa, parte significativa dei loro guai. Si dovrebbe tornare a “l’orgoglio di essere europei”. Ma dove sono gli Spinelli, i Colorni, i Rossi (gli autori del Manifesto di Ventotene)? Oppure gli Schumann, gli Adenauer, i De Gasperi? O anche solamente i Delors?
Forse li si trova in qualche soffitta. Ove non siano stati rottamati. Non ispirano, comunque, le giovani generazioni.