La borsa di Tokyo manda segnali negativi. Non premia il keynesismo da riarmo del primo ministro Abe e la politica inflattiva che ne consegue, anche se si tratterà di un’inflazione a tassi inimmaginabilmente bassi rispetto a quella degli anni ‘80, gli anni della cosiddetta stagflation. E poi non bisogna dimenticare che, a parer mio, la ragione profonda del crollo della borsa giapponese risiede nel fatto che è emersa in tutta evidenza l’inizio della fine della crescita prorompente della Cina. Lo sanno anche i dirigenti cinesi che tentano di sfuggire dal modello sostanzialmente sovietico dell’economia cinese caratterizzata da eccessi di investimenti indebitati e da carenza di consumi interni e quindi da scarsità di domanda aggregata. A fronte di questa scarsità, la svalutazione dello yen può fare ben poco e il Giappone dovrà quindi destinare le sue esportazioni verso i paesi ricchi.
Ma qui la crisi non è finita. Gli Usa, nonostante lo shale gas e il new oil, fanno riscontrare una crescita degli incagli e delle sofferenze bancarie e quindi vuol dire che la vera ripresa nordamericana è ancora ben lontana. L’Europa è una tundra di ghiaccio che sta cominciando ad avanzare anche nella Foresta Nera e sui laghi bavaresi, come dimostrano i dati da incubo sulla stentatissima crescita futura della Germania.
Stiamo sicuramente assistendo alla trasformazione di un sistema economico-sociale e ci vorrebbe l’intelligenza dello Schumpeter di “Capitalismo, socialismo e democrazia” per capire che cosa sta succedendo. Di certo, il capitalismo non sta morendo, come diceva il grande economista austriaco, per eccesso di burocratica statizzazione, ma al contrario, per eccesso di economica liberalizzazione ad alto gradiente di burocratizzazione statualistica. Una cosa è certa: è il capitalismo a essere in crisi. Non siamo davanti a una crisi, ma alla crisi del capitalismo.
Tra questa spettrale scenografia si muove il governo Letta. Le quinte siderurgiche crollano e gli altiforni si spengono, le micro e piccole imprese affondano nelle paludi della tassazione, le medie imprese, alias multinazionali tascabili, si scontrano con la caduta del commercio mondiale, le poche grandi imprese rimaste o cambiano nazionalità o vengono smantellate dalla magistratura.
Nell’ombra delle quinte si assiste a varie scene che si susseguono sul palco: suicidi di gente operosa e disperata, omicidi efferati da fine del mondo, pazzie collettive da intellettuali di classi medie che hanno perso il lume della ragione. Come nei disegni di Henry Moore che rappresentavano coloro che dormivano nelle metropolitane londinesi durante la Seconda guerra mondiale, immense file di disoccupati sostano negli uffici di collocamento e davanti alle mense cattoliche, e alcuni di loro sono degli adolescenti, mentre altri sono persone che vent’anni fa sarebbero già andate in pensione.
Ciò nonostante il governo Letta-Alfano sta dando una gran buona prova di sé. Fa tutto il possibile. Ha vinto la partita di fuoriuscita dalla procedura d’infrazione europea e dispone di un po’ di quattrini e di altri ne disporrà se la già da me ricordata golden rule richiesta da Letta avrà i suoi effetti togliendo dal deficit di Maastricht tanto le spese per le infrastrutture quanto quelle per la coesione sociale.
Forte di questo atteggiamento, più che dei risultati, il governo deve continuare a sfidare l’austerità europea. A porsi come la punta di lancia di tutti coloro che vogliono spezzar il ghiaccio della tundra. Come fare? Da un lato rassicurare l’oligopolio finanziario e pseudo-tecnocratico-europeo-teutonico che si vogliono ridurre gli sprechi pubblici, cartolarizzando finalmente il patrimonio immobiliare pubblico dello Stato e degli enti locali, rapidamente, con decisione. Lanciare un prestito forzoso, attraverso l’offerta di titoli di Stato, obbligando i percettori di reddito superiori ai 200.000 euro ad acquistarne per lo 0,5% del loro patrimonio, così da travestire da prestito per la patria una pseudo-patrimoniale occulta che non spaventerebbe nessuno. Così potremmo ridurre le tasse sull’impresa e sul lavoro.
In questo contesto, giocando sugli avanzi di cassa e con tutti gli artifici finanziari che si possono fare con la finanza pubblica, finanziare un piano del lavoro che si fondi sul principio che non è liberalizzando il mercato del lavoro che si crea occupazione, ma investendo in settori essenziali per la crescita, quali le infrastrutture, le nuove tecnologie 3D e i cluster meccatronici che sono essenziali per la vita delle nostre piccole e medie imprese più evolute.
Penso a una nuova Iri? No. Non voglio creare ospedali di salvataggio per imprese decotte. È l’investimento che crea profitto e lavoro, non viceversa. E quindi lo Stato deve tornare a diventare imprenditore secondo lo storico modello dell’Eni, ma con la forma giuridica del trust anglosassone e non dell’ente di gestione. E quindi nessun consiglio di amministrazione, ma tutti gli amministratori unici che servono. Solo così si potrà recitare su un palco meno spettrale.