“Siamo in una situazione disperata”. Questo è, in sostanza, il giudizio espresso dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. E ha ben ragione di affermarlo, soprattutto perché esprime questo giudizio in considerazione dei dati sulla disoccupazione, in particolare quella giovanile. Infatti, in un Paese in crescita, pur nelle difficoltà, la disoccupazione giovanile non dovrebbe mai essere superiore al tasso di disoccupazione generale. I giovani dovrebbero essere ricercati come preziosi, sia perché si facilita la crescita di risorse interne, fresche e vogliose di lavorare anche duramente, sia perché la pressione fiscale e le condizioni sociali in genere dovrebbero favorire l’assunzione dei giovani. Certo, questi ultimi non possono essere lanciati allo sbaraglio, ma questo vuol dire che occorre, numericamente, una guida esperta per loro. Quando succede il contrario, come da decenni accade in Italia, ciò vuol dire che una nazione si sta avvicinando al proprio dissolvimento, vuol dire che una civiltà si avvicina al proprio stadio terminale. Ed è proprio quello che sta accadendo.
Così Squinzi ha fotografato la nostra situazione: “Abbiamo tre milioni di disoccupati, ma quello che è più grave è che il 40% dei giovani è senza lavoro e molti hanno smesso di cercarlo. Siamo in una situazione disperata, rischiamo di perdere una o due generazioni di giovani”. Una o due generazioni di giovani? Circa dieci milioni di italiani? Ma la cosa grave non è la situazione attuale, è quello che la politica (o la società in generale) sta facendo per rimediare a questa situazione: nulla, assolutamente nulla di sostanziale.
Pure il Presidente del Consiglio Letta ha affermato che la disoccupazione giovanile è il suo cruccio maggiore, da quando è andato al governo del Paese. Ma di fatto, la concretezza della sua azione politica ha riguardato in maggioranza alcuni aggiustamenti finanziari, modeste azioni di contorno rispetto alla vastità e alla gravità del problema. Nessuna sterzata radicale, niente di niente. Nei fatti, il giudizio di Squinzi è di minoranza nella testa dei politici. Non c’è nessun politico di rilievo che abbia espresso simili giudizi, nonostante siano ovvi per chi osservi la realtà. Nessun leader politico all’orizzonte, in questo senso. Nessuna voce autorevole.
Tranne quella del Santo Padre, opportunamente silenziata (o marginalizzata) dai media. Eppure le sue parole sono state chiarissime e durissime: “Alcune patologie aumentano, con le loro conseguenze psicologiche; la paura e la disperazione prendono i cuori di numerose persone, anche nei paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va diminuendo; l’indecenza e la violenza sono in aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e spesso per vivere in modo non dignitoso”.
E da cosa dipende questo malessere sociale? “Una delle cause di questa situazione, a mio parere, sta nel rapporto che abbiamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società. Così la crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo!”.
Questo è quello che, concretissimamente, accade a livello europeo, nelle stanze del potere europeo, e di riflesso anche nella politica italiana. C’è una sudditanza culturale, nella politica italiana, che dipende radicalmente da una mancanza di coscienza di ciò che si è, del fatto di essere italiani, di essere portatori di un valore. E la mancanza di coscienza è un fattore di tipo religioso.
Al Santo Padre questo fattore è evidentemente molto chiaro: “Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano. La crisi mondiale che tocca la finanza e l’economia sembra mettere in luce le loro deformità e, soprattutto, la grave carenza della loro prospettiva antropologica, che riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo”.
Questa riduzione è perpetrata perché a essa corrisponde una possibilità di maggiore speculazione e di profitti finanziari, sulla pelle della popolazione. Ma non basta: “E peggio ancora, oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo incominciato questa cultura dello scarto. Questa deriva si riscontra a livello individuale e sociale; e viene favorita! In un tale contesto, la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce”.
Giudizi semplicissimi e durissimi, pure sulle ideologie che hanno provocato e ancora oggi promuovono questa situazione: “Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. […] la volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti”.
Ora questa situazione, bisogna dirlo con chiarezza e per amore della verità, conduce facilmente alla dittatura. Una “volontà di potenza e di possesso senza limiti” è solo il nome lungo di una dittatura di fatto. E queste cose sono state dette sempre dalla voce autorevole della Chiesa in tempi non sospetti: “Un’autentica democrazia è possibile sono in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana […]. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (Centesimus Annus, n. 46).
Ora dopo ventidue anni da quelle parole, con il crollo dei votanti alle elezioni, quel giudizio si sta tramutando in realtà. Il crollo dei votanti rende il sistema elettorale sempre più frattale, sempre più facilitante gli eccessi. Un nuovo partito (o uno dei partiti già presenti) potrà prendere la maggioranza assoluta con pochi voti in più, per mancanza di avversari. E la storia ci insegna che le ultime dittature sono nate da gravi situazioni sociali, in momenti di confusione sulla “retta concezione della persona umana”.
Avremo meno democrazia. Ma non è questo l’aspetto più grave. Viviamo in tempi di eccessivo infatuamento nei confronti della democrazia (addirittura c’è chi fa le guerre per portare la democrazia in paesi lontani, presso popolazioni di cui pretende di conoscere il bene). Noi tutti dobbiamo smetterla di considerare la democrazia come panacea di tutti i mali. Il disastro che abbiamo sotto gli occhi, provocato dalla complicità di istituzioni democraticamente elette, dovrebbe averlo reso evidente a tutti. E c’è un altro aspetto positivo. Storicamente, gli unici poteri che hanno saputo fronteggiare lo strapotere del sistema bancario (o finanziario) sono state le dittature. Semplificando molto (forse troppo) il giudizio, si potrebbe dire che le ultime dittature europee hanno fronteggiato efficacemente certi loschi poteri finanziari, ma hanno pure portato la guerra mondiale.
Sapremo fare di meglio? Sono ottimista, la storia non passa invano. E la memoria è la nostra arma vincente.