Il rapporto Ocse sull’Italia, il debutto di Fabrizio Saccomanni, il tour inaugurale di Enrico Letta in Europa, la decisione della Bce che taglia il tasso di riferimento allo 0,5%, minimo storico. A cavallo del primo maggio si può dire senza essere smentiti che è venuta alla luce del sole la politica economica del nuovo governo italiano e il quadro in cui si inserirà, quello interno fotografato dal rapporto Ocse sull’Italia e quello esterno delineato dall’Unione europea e dalla Banca centrale. Che cosa ne emerge?
Il primo punto, ai limiti dell’ovvio, è che i margini di manovra sono molto ristretti. Non c’è spazio per significative riduzioni delle imposte, dice l’Ocse, anche se questa resta la via maestra per rilanciare la domanda interna, cioè per colmare in parte il buco nero dell’economia italiana. Nonostante nuove minacciose nubi s’addensino sul mercato mondiale (la Cina rallenta e l’America ancora zoppica) non è da qui che vengono i problemi principali, lo dimostra il buon andamento delle esportazioni; il male oscuro è domestico e si chiama recessione produttiva, ristagno dei consumi, stretta del credito e “sciopero” degli investimenti, un atteggiamento quest’ultimo che non riguarda solo il presente, ma l’intero decennio di ristagno e di non crescita.
L’Ocse dà molta importanza alle riforme strutturali (mercato del lavoro più flessibile, maggiore concorrenza, efficienza dei servizi grande palla al piede del Paese), tuttavia queste possono produrre risultati (anche eccellenti) nell’arco di almeno tre-cinque anni. E intanto? L’urgenza dei problemi sociali, non solo economici, non consente di attendere; anzi, l’attesa in uno stato di sostanziale depressione impedisce il buon esito delle stesse riforme, come ha scritto il Fondo monetario internazionale.
Qui entra in ballo Saccomanni e la sua strategia. Intervenendo ieri alla presentazione del rapporto Ocse ha dato alcune indicazioni chiare: sviluppo, ma con prudenza. Nessuna decisione affrettata nemmeno sui temi più urgenti. Prima di allentare i vincoli di bilancio, bisogna rispettarli. Il primo passo è far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione per aver superato il limite del 3% nel deficit del settore pubblico; può avvenire entro giugno e ciò consentirà di liberare 12 miliardi nei comuni più virtuosi i quali potrebbero investirli, compensando in parte l’ammanco per il mancato introito dell’Imu sulla prima casa. I comuni non virtuosi potrebbero chiedere un prestito alla Cassa depositi e prestiti, che verrebbe poi restituito dal Tesoro con una parte degli introiti della lotta all’evasione (circa 12 miliardi nel 2012).
Intanto, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione può invertire le aspettative e mettere in moto la domanda, colmando così quel gap di crescita denunciato dall’Ocse e riportando un piccolo segno più nell’andamento del Pil, come spera Saccomanni. C’è poi l’inizio dell’operazione patrimonio pubblico, insieme a una revisione/rafforzamento della spending review e alla “manutenzione” del bilancio in vista della prossima finanziaria. All’interno di questo bouquet si troveranno le risorse per gli esodati e per la Cassa integrazione in deroga, senza fughe in avanti.
Una cosa alla volta, insomma. Il rischio è che il fermo gradualismo del ministro dell’Economia sfugga di mano o venga spiazzato dai fatti. Un rischio molto serio. Se, invece, Saccomanni ha ragione, allora si potrà tornare a Bruxelles e avviare già nel vertice di giugno un negoziato per ottenere una proroga di due anni al pareggio del bilancio.
Su queste pagine abbiamo scritto in tempi non sospetti che questo è l’unico vero margine di manovra per recuperare risorse da destinare alla crescita. Fa piacere che adesso anche il nuovo governo lo riconosca (mentre prima tutti facevano spallucce o pensavano a oscure operazioni euroscettiche) e si muova di conseguenza. Detto questo, sarà difficilissimo. La Germania farà del tutto per rinviare ogni decisione a dopo le elezioni di settembre. Dunque il Consiglio europeo importante sarà quello di fine anno.
Lo stesso scontro politico tedesco si è “italianizzato”, con l’emergere di una forte componente anti-euro. La differenza rispetto all’Italia è che proviene dall’interno dell’establishment e non dall’esterno, ma ciò rende il tutto ancor più pericoloso. Letta lo sapeva già e in ogni caso l’ha capito martedì a Berlino.
Nel frattempo, Mario Draghi sta esaurendo le sue munizioni. Non tanto quelle tecniche, ma quelle politiche. L’opposizione della Bundesbank al programma di acquisto dei titoli pubblici è sempre più rocciosa e si estende anche al meccanismo di stabilità, come dimostra il parere degli uffici giuridici inviato all’Alta corte tedesca che a giugno deve decidere se quello strumento viola la Costituzione. Dunque, è improbabile che si possa ripetere l’operazione dell’estate 2012. Tutti notano, del resto, la differenza di toni: l’uomo che disse “faremo tutto, ma proprio tutto” per difendere l’euro oggi si dichiara “frustrato” dalla scarsa reazione delle banche alla massiccia iniezione di liquidità e mette l’accento sui limiti della politica monetaria. Lo fa anche il suo più stretto alleato, il francese Benoit Coeuré (membro del comitato esecutivo dell’Eurotower): “La Bce non ha la bacchetta magica”, va ripetendo a tutti i venti. Secondo alcune stime, la riduzione dei tassi d’interesse porterebbe un beneficio di 3,6 miliardi in Italia. Ottimo, però non basta nemmeno per compensare l’Imu.
Nel consiglio dei 23 governatori riunito ieri a Bratislava si sono sentite molte voci mettere in guardia dalle illusioni eccessive: la lotta alla recessione con la sola politica monetaria non funziona. Dunque, è chiaro che di qui ai prossimi mesi il bastone passa alla politica fiscale, a meno che non s’abbatta sui mercati una nuova improvvisa tempesta finanziaria.
E proprio la politica fiscale nell’Europa intera è in piena paralisi. La pazienza di Saccomanni, sviluppista con giudizio, sarà messa a dura prova, come quella del biblico Giobbe.