A piccoli passi, nel suo modo confuso e rabberciato, l’Ue cerca di allontanarsi dall’austerità. L’Italia è fuori dalla procedura aperta nel 2009 per aver infranto il limite al disavanzo pubblico, vengono concessi due anni in più a Francia, Spagna, Polonia e Slovenia, solo un anno all’Olanda per rientrare entro il 3% del Pil e saranno varate misure contro la disoccupazione giovanile. È vera svolta? Lo dirà il futuro, ma non possiamo lasciare ai posteri l’ardua sentenza. Anche perché la congiuntura non sta certo migliorando, come ha ammesso lo stesso José Manuel Barroso.



L’Ocse prevede per l’insieme dell’area euro una contrazione del Pil dello 0,6% nel 2013, e un ritorno alla crescita, con un +1,1%, nel 2014. “La Germania è la principale eccezione, con una ripresa già in corso”, scrive il rapporto diffuso ieri. La disoccupazione nell’eurozona “aumenterà ulteriormente”, ed è “la sfida più pressante per i leader politici”: 12,1 % nel 2013 e 12,3% nel 2014. Le stime sul Pil italiano peggiorano, passando dal -1,5% al -1,8% per il 2013, e dal +0,5% al +0,4% per il 2014. “La recessione continuerà per tutto il 2013, con gli effetti del consolidamento di bilancio e le condizioni restrittive del credito che pesano sull’attività economica”, scrive l’organizzazione dei paesi più industrializzati.



In questo scenario, l’Ue non è in grado di mettere in campo risorse pubbliche significative. Le misure per l’occupazione sono poca cosa: Nouriel Roubini ha calcolato che i 6 miliardi a disposizione per i giovani disoccupati equivalgono a 100 euro a testa. Non ci sono margini per un nuovo ciclo di deficit spending. In nessun Paese. La Francia deve tagliare la spesa e riformare le pensioni, ha ricordato ieri Barroso. Il cammino della Spagna si presenta ancor più arduo. Quanto all’Italia, è vero che il deficit scende dal 5,5% del 2009 al 2,5% l’anno prossimo, ma il debito continua ad aumentare anche nel 2014 superando quota 132%. Il margine di manovra realistico è calcolato in mezzo punto di prodotto lordo (insomma circa 8 miliardi).



Se potrà avere un effetto volano o no, si vedrà. Ma il dramma è che l’economia italiana non sarebbe nemmeno in grado di approfittare dei nuovi spazi a disposizione, perché il suo potenziale produttivo si va via via riducendo. Non c’è nessuna molla carica pronta a scattare. Se diminuisse d’emblée l’incidenza del fisco sul costo del lavoro siamo sicuri che le risorse ricavate si trasformerebbero in investimenti e crescita? C’è da dubitarne. Del resto, come è finito il taglio al cuneo fiscale deciso dal governo Prodi nel 2006?

Meglio avere un po’ di quattrini in tasca che non averli. Siamo alla fiera dell’ovvio. Però, per aumentare il potenziale produttivo, bisogna riformare i mercati del capitale, del lavoro, dei servizi, banche, borsa, intrecci azionari, professioni, contratti. Le raccomandazioni dell’Ue seguono questo canovaccio. È la grande incompiuta che Mario Monti lascia a Enrico Letta e questi al suo successore. Sotto emergenza si poteva fare. Oggi c’è un governo di larghe intese, ma le intese mancanti sono proprio sulle riforme strutturali per rilanciare il Paese. Ciò spinge Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse, a sostenere che non conviene ridurre le tasse troppo in anticipo: si avrebbe il risultato di aumentare il deficit subito senza essere in grado di trasformare il maggior reddito disponibile in produzione e lavoro. Fabrizio Saccomanni gli dà ragione: “Pensiamo agli investimenti non all’Iva”, dice il ministro dell’economia.

Dunque, siamo in un cul de sac? «La Bce ha abbassato in modo appropriato i suoi tassi e si è impegnata a mantenere un atteggiamento accomodante fino a quando sarà necessario, ma si può fare di più con ulteriori misure non convenzionali», scrive Padoan. Tuttavia, occorre che le banche riducano i tassi alla clientela, aprendo i rubinetti alle Piccole e medie imprese. Sono scelte private che non seguono quelle pubbliche perché il canale di trasmissione è intasato. Per sbloccarlo ci vuole un cambiamento nel cuore del sistema, non in periferia, al contrario di quel che si sente dire a Bruxelles.

Una ricetta nuova che spezzi davvero il digiuno, richiede la bistecca alla Bismarck. La Germania fino a settembre è in campagna elettorale, ma una cosa è certa: non cambierà strategia, tanto più se, come dice l’Ocse, sta già superando la sua breve recessione, con prezzi bassi e un mercato del lavoro vicino al pieno impiego. Potremo discutere a lungo perché è successo, ma tra il Reno e l’Elba l’austerità ha funzionato e nessuno vuole lasciare il certo per l’incerto. Non solo, cresce l’euroscetticismo tra l’opinione pubblica. Si risente parlare di Piigs e il settimanale Der Spiegel racconta tutti gli attacchi a Mario Draghi conditi dal sempiterno sospetto che le sue innovazioni di politica monetaria servano soltanto a salvare l’Italia. Il presidente della Bundesbank e quello della Bce sono ai ferri corti. Quanto potrà durare?

In questo clima, Angela Merkel vuol mettere sul tappeto, fin dal consiglio Ue del prossimo mese, un salto in avanti, trasformando il Fiscal compact in una politica di bilancio comune, insomma un governo economico, conditio sine qua non per sbloccare l’unificazione bancaria sotto la vigilanza della Bce. Le banche tedesche hanno bisogno di altri 14 miliardi di euro per aumentare i propri capitali e soddisfare i criteri di Basilea. E Berlino non ha intenzione di consegnarle a Draghi o a nessun altro, finché non ci sarà un’istituzione nella quale la Cancelleria possa avere un ruolo predominante. Così la Merkel prende in contropiede Hollande e mette i federalisti di fronte alla realtà.

Bello parlare di Stati Uniti d’Europa, un Anschluss è tutt’altra cosa. Se la Germania vuole cambiare i trattati, ben venga. Ma allora bisogna farlo senza pregiudizi, né tabù. Hanno ancora senso, con una politica economica comune, due criteri del tutto arbitrari come quelli scelti a Maastricht? Forse Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno fatto male i calcoli, ma sostengono che il debito pubblico rallenta la crescita se sale oltre quota 90%. Perché scegliere il 60% se non per trasformare la Germania in benchmark, anzi in esempio e modello? Sarà dura, ma questa è la vera partita.

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