Martedì pomeriggio, mentre stavo lavorando, ascoltavo il punto economico del pomeriggio su RaiNews 24, di cui era ospite Federico Rampini, corrispondente da New York de La Repubblica e grande conoscitore di materie economiche e finanziarie. Wall Street aveva aperto da poco, ma due dati macro le stavano già mettendo il turbo: il balzo della fiducia dei consumatori ai massimi da cinque anni e l’aumento dei prezzi delle case degli Stati Uniti a marzo. «L’America ha voltato l’angolo», sentenziava Rampini. Ora, io ho il massimo rispetto di un giornalista di quel rango e capisco che La Repubblica abbia due mantra quasi ontologici da rispettare, ovvero incensare Obama e Keynes. Però, mi hanno insegnato che le storie vanno raccontate fino in fondo, non solo la parte che fa comodo.



Al netto del diluvio di liquidità della Fed e di due dati macro del genere, perché Wall Street ha chiuso con il Dow Jones a +0,69% e il Nasdaq in parità? Semplice, perché in contemporanea all’apertura sprint della Borsa si sostanziava con il passare delle ore la peggiore sell-off vista da mesi sui Treasuries americani a dieci anni, il cui rendimento toccava il massimo del 2,23%, salvo chiudere al 2,20%. Mentre c’è voluto un triliardo di yen di immissione di liquidità della Bank of Japan per far chiudere il rendimento del decennale nipponico sotto quota 1%, allo 0,93%. Insomma, siamo in piena bolla. Azionaria e obbligazionaria e l’America della tanta decantata ripresa ne è un’altra volta l’epicentro.



Non sto qui a spiegarvi per la milionesima volta cosa significhino rendimenti in rialzo sulla curva per chi detiene obbligazioni in portafoglio, ma capite che se le banche riusciranno probabilmente a scaricare quella carta, se si farà troppo pericolosa, i fondi pensione – veri e propri kamikaze delle operazioni di stimolo – rischiano di finire alla griglia. E sapete chi ha innescato quella sell-off sull’obbligazionario Usa: le banche giapponesi, le stesse che il mondo fatato dell’Abenomics vorrebbe acquirenti di tutto e che invece, memori degli anni Novanta, cominciano a scaricare avendo già i loro guai con i rendimenti dei bond nipponici in portafoglio. Di più, Lloyd’s, gigante del credito britannico tutt’oggi nazionalizzata, sta mettendo in asta un portafoglio di mutui per 8,7 miliardi di dollari, ingolosendo tutti vista la vulgata che vuole la Fed pronta a rientrare in campo per sostenere questa categoria di assets.



Certo, Lloyd’s ha preso una bella botta dalla crisi, ma è anche la banca che ne è uscita meglio e più sana: perse molto quando vendette il book di mutui irlandesi e anche parte di quello dei mutui commerciali britannici a rischio prima del grande botto, ma tutto in base a una legge molto saggia, ovvero prendere la mazzata quando sai che puoi ancora reggerla. Non come Lehman che era già sulle ginocchia e senza fiato.

Vediamo ora un po’ quei dati che hanno fatto infiammare Wall Street da vicino. Dunque, la fiducia dei consumatori è ai massimi da cinque anni, peccato che lo stesso dato il mese scorso abbia subito il peggior fallimento sulle previsioni della sua storia, schiantandosi a 72,3 da 78,6, livello che gli analisti pensavano rimanesse confermato. Inoltre, anche il dato sugli inventari lo scorso mese deluse e non poco, toccando il minimo da settembre 2011 a 0,1% dal precedente 0,9%. Che diavolo è successo in un mese per portare quel dato al massimo da cinque anni? Niente, non un singolo dato macro Usa è migliorato sensibilmente, anzi voci come l’indebitamento studentesco e quello per il credito al consumo cominciano a rimandare sinistre ombre della crisi subprime. Mistero.

Ma di misteri in questa America alluvionata di dollari, ce ne sono tanti. Uno dei quali dovrebbe farci capire quanto il dato di chiusura di Wall Street di martedì sia preoccupante e quanto abbia inciso sul mercato l’aumento dei rendimenti su obbligazioni sovrane (anche il Bund ha sfondato quota 1,5%) e perché appena chiusa l’operazione di finanziamento Pomo della Fed a fine contrattazioni, i futures sull’indice S&P 500 siano crollati ai loro minimi. Guardate questo grafico.

Due giorni fa il Dow Jones ha chiuso in positivo per il ventesimo martedì di fila, mettendo a segno dal 25 gennaio a oggi un +11% con un aumento medio di 80 punti: levate però le contrattazioni del martedì e l’aumento da gennaio a oggi è solo dello 0,2%, ovvero quasi in parità, fisso come un baccalà nonostante il denaro della Fed. Che succede di martedì? Giuro che non lo so e anche molti analisti che ho contattato brancolano nel buio, ma un dato del genere non può essere frutto del caso: temo che il martedì, in qualche diabolico modo, la Fed operi come quei bar che, scoperto il giorno più scarso della settimana, in quella giornata propongono la piadina a 3 euro invece che 5. In qualsiasi caso, è una bolla. E, forse, una manipolazione – ancorché legale, penso – del mercato. Eccovi parte del miracolo del Wall Street svelato.

Ma andiamo avanti. Il dato del prezzo delle case è stata un’altra dinamo delle prime ore di contrattazione di martedì, quelle che hanno fatto dire a Rampini che «l’America ha voltato l’angolo» Bene, guardate questi tre grafici

 

 

 

 

Il primo ci dimostra come prendendo il prezzo medio di una nuova casa e dividendolo per il potere d’acquisto medio di un americano, espresso in entrate reali a disposizione pro capite, scopriamo che siamo di nuovo in una bolla in stile subprime: quell’andamento non solo ci dice che oggi i prezzi delle case sono a livelli di inaccessibilità mai visti, ma anche che il cheap credit della Fed è il carburante di questo nuovo boom del mercato immobiliare come mai prima nella storia, visto che il dato delle richieste di mutuo dall’inizio dell’anno a oggi è il peggiore dal 2009 e la divergenza tra case vendute e richieste di mutui sta ampliandosi sempre di più a ritmo settimanale, come ci mostra il secondo grafico.

Ora il terzo grafico, che ci visualizza i maggiori aumenti di prezzo in base alle città. Vi ricordate quali furono gli Stati che alimentarono maggiormente la bolla real estate del 2006? Arizona, California e Nevada. E quali città hanno visto i maggiori aumenti dei prezzi? Phoenix, San Francisco e Las Vegas, lo dicono i dati dell’indice Case-Shiller diffusi con tanto entusiasmo martedì. Tutte e tre queste città hanno conosciuto aumenti di oltre il 20% dei prezzi anno su anno, mentre Detroit solo del 18%. E New York, la capitale del mondo? Ultima in classifica. Siamo o non siamo in una bolla un’altra volta?

Ma andiamo avanti, perché altri dati ci dicono che i record di Wall Street non significano ripresa, certamente non per l’economia reale: l’impatto dello stimolo monetario su main street, infatti, è stato nullo sia nel breve che nel medio termine. L’economia Usa non si era contratta fino al secondo trimestre del 2009 e anche se le previsioni dell’Ufficio per il Budget del Congresso dovessero risultare accurate e la crescita del Pil reale dovesse attestarsi quest’anno all’1,4%, l’America non ha vissuto un quadriennio di crescita così negativo da quando esiste il Bureau of Economic Analysis, ovvero dagli anni Trenta.

A mettere in fila questi dati, in base a incrementi decennali, ci ha pensato Forbes, non qualche blogger anti-Fed: 1948-1957 crescita media del 3,80%; 1958-1967 del 4,28%; 1968-1977 del 3,18%; 1978-1987 del 3,15%; 1988-1997 del 3,05%; 1998-2007 del 2,99%; 2008-2013 dello 0,73%. Con il 2008 e 2009 in negativo e non conteggiati, la media ponderata del triennio ci porta al +1,95%, un punto secco rispetto al decennio precedente. Solo colpa della crisi finanziaria? Forse no, visto che al netto della sistematicità della crisi il governo Usa ha messo in campo tagli alle tasse, spesa per stimolare l’economia e tassi a zero da quattro anni. E prima? Nel 1948 la tassazione come parte del Pil era al 16,2%, quest’anno sarà del 16,9%. Nel 2011 fu del 15,4%, nel 2010 e 2009 del 15,1% e nel 2008 del 17,6%: tutte percentuali sotto le stime del Cbo, con una media del 17,9%. E la spesa federale? Nel 1948 era pari all’11,6% del Pil, nel 2012 sarà pari al 22,2%, quasi il doppio. Nel 2012 fu del 22,8%, nel 2011 e 2010 del 24,1%, nel 2009 del 25,2% e nel 2008 del 20,8%. Nel 2007, prima della crisi, era del 19,7%, contro una media calcolata del 21%.

Questa non è politica di stimolo, è politica di dipendenza da spesa pubblica sul lungo termine, visto che l’aumento della percentuale di spesa governativa sul totale dell’economia Usa non fa altro che contrarre in proporzione la quota del settore privato, il vero produttore di ricchezza reale. Così facendo, il governo non crea nuova ricchezza, semplicemente sta creando un’aura di animazione fittizia attorno a quella già esistente. Solo per Wall Street, però. Dal 2008 il debito federale detenuto dal pubblico è più che duplicato, passando da 5,8 triliardi di dollari agli attuali 12,2: questo a tassi praticamente a zero, ma quando i tassi torneranno a livelli normali, magari il 3% pre-crisi, questo debito andrà a impattare negativamente sull’economia. La quale è talmente sana e in ripresa che ieri il Financial Times annunciava come il gigante della produzione di carne cinese Shuanghui Group stesse per chiudere un accordo per l’acquisizione di Smithfield Group, leader del settore del bacon negli Usa attivo dal 1936 e con una capitalizzazione di 3,6 miliardi di dollari, per una cifra tra i 4,5 e i 5 miliardi di dollari. L’offerta cinese sconta un premio di quasi il 30% sul valore di chiusura del titolo martedì, a 25,97 dollari per azione. La terra del baconburger vende il suo bacon più famoso ai cinesi, dopo che la Fed dal 2008 a oggi ha ampliato il suo stato patrimoniale da 0,897 triliardi di dollari agli attuali 3,3 triliardi: l’America avrà anche svoltato l’angolo. Ma sicuramente ha sbagliato strada.

 

P.S.: E l’Europa? Ieri l’Unione europea ha esteso i termini per il rientro dall’eccesso di deficit per il Portogallo al 2015, per l’Olanda al 2014 e per la Spagna addirittura al 2016, oltre a sancire lo stop alla procedura di infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo. È finita l’austerity? No, è finita l’Europa. Ma ne parleremo più diffusamente domani.