E adesso? Una volta uscita dalla procedura per deficit eccessivo, l’Italia si gioca buona parte del suo futuro in un giugno di fuoco, sia sul terreno domestico che sui campi di Germania e di Bruxelles. Tre le partite internazionali cruciali: 1) il prossimo direttorio della Bce, che tra una settimana dovrà decidere un nuovo taglio dei tassi e/o esaminare le terapie per far arrivare la liquidità alle imprese; 2) il dibattito alla Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe sulla legittimità, ai sensi della legge tedesca, degli interventi Bce sui titoli dei paesi che abbiano chiesto l’aiuto della banca centrale, ovvero il piano Draghi; 3) il vertice Ue del 27-28 giugno dedicato all’Unione bancaria. Il dibattito interno sulla destinazione delle risorse liberate dall’assoluzione di Bruxelles non può non tener conto di questo processo a tre tappe. O tantomeno di una congiuntura internazionale in rapida evoluzione. Sia perché, come ha sottolineato il capo economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan, il nodo del credito bancario pesa oggi sulla ripresa più del rigore fiscale, ormai in buona parte alle spalle. Sia perché nei prossimi mesi dovremo fare i conti con le esigenze preelettorali del governo tedesco: ogni mossa di frau Angela Merkel sarà condizionata dalla necessità di tenere a bada gli umori anti-euro di una parte dell’opinione pubblica tedesca.



Date queste premesse politiche, è difficile che Mario Draghi possa far “digerire” alla Germania una svolta significativa che stimoli l’afflusso della liquidità delle banche, oggi parcheggiata presso la Bce, alle imprese. Dalla Bundesbank è già filtrata l’ostilità all’ipotesi di tassi negativi per i depositi presso la banca centrale (“una misura che aiuta il Sud Europa a danno del risparmio tedesco” ha scritto Die Welt). Ancor meno accettabile è la possibilità di acquistare, come già ha fatto la Fed, titoli obbligazionari privati, vedi Abs, per ridar ossigeno e coraggio alle banche. Non resta che un nuovo taglio del tasso di sconto, osteggiato dalla Buba, ma gradito alle imprese d’oltre Reno cui non dispiacerebbe una modesta svalutazione dell’euro.



Una boccata d’ossigeno che non risolverà comunque i problemi strutturali delle banche (e, di riflesso, del credito). Per questo ci vorrà un’effettiva unione bancaria, a partire da un fondo all’americana di garanzia che consenta di accelerare la pulizia dei bilanci. Ma Wolfgang Schaeuble ha raffreddato la speranza che nel vertice di fine giugno si andrà oltre un’affermazione dei principi. L’Europa, insomma, anche nel momento della promozione resta in un certo senso matrigna e severa verso il Bel Paese. Difficile, date le premesse, che l’Unione europea accolga le richieste italiane di non conteggiare una parte delle spese, anche se destinata a investimenti, nel bilancio pubblico.



Infine, non meno importante, la rapida ripresa americana combinata con la delicata evoluzione dell’Abenomics (anche in Giappone, a luglio, c’è un appuntamento elettorale decisivo per le sorti delle riforme volute da Shinzo Abe) può provocare un cambo di rotta dei mercati monetari, con un possibile aumento dei tassi assai pericoloso per il debito italiano, che resta ad altissimo rischio: un rapporto debito/Pil che, secondo l’Ocse, rischia di salire al 134,3% nel 2014, anno in cui la spesa pubblica salirà al 51,1% del Pil senza però contrastare un nuovo aumento del tasso di disoccupazione.

Ogni ottimismo, insomma, è fuori luogo. Ma Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni hanno a disposizione poche, ma preziose cartucce. L’uscita dell’Italia dalla procedura di deficit eccessivo libera risorse per 8 miliardi di euro dal 2014. Decisivo sarà lo sforzo per ottenere l’applicazione della “golden rule” che potrebbe apportare risorse aggiuntive fino a 12 miliardi. Insomma, secondo l’osservatorio dei conti pubblici dell’Aiaf (l’Associazione italiana degli analisti finanziari) potrebbero liberarsi fino a 20 miliardi per contrastare una recessione che, giorno dopo giorno, costringe a rivedere al ribasso le stime sull’economia italiana: -1,8% nel 2013, secondo l’Ocse; solo il +0,4 % per il 2014, contro la previsione dell’Ue del +0,7% già inferiore a quella prevista dal Def.

In questa situazione, sottolinea l’Aiaf, per uscire dalla congiuntura recessiva (-4,3% i consumi interni, solo parzialmente compensati dal +2,2% dell’export) l’Italia non può che affidarsi a due speranze: l’accelerazione dell’economia mondiale (possibile) e lo stimolo alla domanda interna attraverso le leve fiscali, assai più problematico se, come scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, “lo spazio per un taglio delle tasse purtroppo non c’è, né il margine per utilizzare i fondi strutturali europei il cui finanziamento aumenterebbe il nostro deficit”. A meno che l’occasione dell’uscita dalla procedura non si traduca finalmente in uno scatto virtuoso, ovvero in una nuova strategia per la crescita e per la riduzione del debito.

In che modo? Alesina/Giavazzi suggeriscono una terapia d’urto: l’Italia, come hanno già fatto Francia e Spagna, chiede di sforare temporaneamente la soglia del 3% per poter ridurre fin da subito l’imposizione fiscale sul lavoro. Nello stesso tempo attiva il Meccanismo europeo di stabilità (Ems) con l’obiettivo, già perseguito dalla Spagna, di utilizzare i fondi Ue per risanare il sistema bancario e congelare crediti incagliati e sofferenze in una bad bank che ogni giorno che passa si gonfia di nuove cattive sorprese. In questo modo la ripresa italiana potrà contare su risorse credibili (almeno 50 miliardi) per la ripresa.

È un piano realistico? Per le ragioni sopraesposte, ovvero il fuoco di fila della Bundesbank e degli euroscettici tedeschi, probabilmente no. Difficile, poi, chiedere a Enrico Letta di spiegare all’opinione pubblica la richiesta di risalire oltre il 3% dopo aver cantato vittoria per aver raggiunto, tra mille sacrifici, il risultato opposto. La strada alternativa c’è, ed è molto ambiziosa visto che il programma di governo prevede misure di spesa per oltre 15 miliardi: quattrini che, se non si vuole sforare il tetto del 3%, andranno recuperati in qualche modo. Una missione difficile ma non impossibile se, come sostiene l’Aiaf, “qualche spazio di manovra esiste”, sia in Italia che in ambito europeo.

Sul terreno domestico si può contare su: minore spesa per interessi (100 punti base nel debito valgono 4 miliardi), accelerazione della spending review, lotta all’evasione, dismissioni del patrimonio pubblico. Infine, last but non least, una riforma fiscale che ridistribuisca i carichi in senso più equo e favorevole all’occupazione. Anche a costo di sacrificare il tabù dell’Iva: meglio un punto in più a danno dei consumi, purché destinato ad aumentare la competitività delle imprese (come del resto fece la Germania nel 2004). 

È una scelta dolorosa ma necessaria se si vuole uscire da un cul de sac provocato da vent’anni di crescita frenata.