Il governo Letta si prepara a presentare un primo decreto entro i prossimi giorni per sospendere l’Imu e finanziare gli ammortizzatori sociali, e un secondo a giugno per evitare l’aumento dell’Iva. Tre i piani per trovare i 6 miliardi di euro necessari all’operazione. Il primo è il rilancio della spending review ispirata al “libro verde” di Tommaso Padoa Schioppa; il secondo è la creazione di una nuova Sgr (Società di gestione del risparmio) per la vendita di 350 immobili dello Stato; il terzo è il piano-Giavazzi che comprende il taglio delle agevolazioni per le imprese, a partire dai trasferimenti alle Ferrovie. Ilsussidiario.net ha intervistato l’economista Francesco Forte.



La convince il piano del governo Letta per coprire il congelamento della prima rata dell’Imu e l’aumento dell’Iva?

Ritengo che sia una buona cosa il fatto di evitare le sovvenzioni, optando invece per la scelta di fare andare anche le imprese pubbliche sul mercato. Queste ultime in tal modo sono vincolate a criteri economici pur nell’ambito di un servizio alla comunità. La vendita di immobili pubblici, con il conferimento alla nuova Sgr, è uno schema che era stato proposto in un convegno di Magna Carta sulla base di due modelli differenti, elaborati rispettivamente da Paolo Savona e da Rainer Masera. Queste due proposte sono poi state consegnate al Pdl prima delle ultime elezioni, e sono state inserite a pieno titolo nel suo programma elettorale.



In concreto come funzionavano queste due proposte?

L’idea guida era la riduzione del perimetro dello Stato per raggiungere due obiettivi: finanziare la spesa pubblica senza creare deficit e senza applicare altre imposte; ridurre il perimetro dell’operatore pubblico e immettere sul mercato gli immobili dello Stato, che possono essere meglio gestiti con un’impresa finanziaria. Quest’ultima sarebbe in grado di pagare il debito pubblico risolvendo così, tramite gli strumenti finanziari, il problema legato al fatto che lo Stato ha bisogno dei soldi subito, ma che per fare fruttare gli immobili è necessario venderli gradualmente.



Ritiene che sul piano del governo Letta possa registrarsi un’ampia convergenza?

Sì, in quanto si tratta dei punti contenuti nel documento che Berlusconi consegnò a Napolitano, il quale non lo guardò nemmeno optando invece per la formazione del governo Monti. Gli stessi punti divennero poi il programma economico del Pdl alle ultime elezioni, riprendendo e sviluppando il documento con l’aiuto degli esperti Masera e Savona. Il provvedimento allo studio di Enrico Letta recepisce in gran parte il programma e le idee del Pdl, pur usando come copertura i nomi di Tommaso Padoa Schioppa e Francesco Giavazzi. Letta è costretto a riconoscere che esiste una concezione economica, molto vicina all’economia sociale di mercato, anche nella tradizione italiana.

A quale tradizione si riferisce?

 

I suoi precursori sono stati Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. L’idea forte su cui si basa il provvedimento allo studio è che lo Stato si deve avvalere in larga misura di imprese pubbliche che svolgono un servizio, anziché tenere tutto nel suo perimetro. Ciò può avvenire semplicemente come area di passaggio al mercato in generale, oppure a seconda delle circostanze come importante strumento di economia in cui l’operatore pubblico si avvale del libero scambio.

 

 

Insomma il governo è sulla giusta strada …

 Questi strumenti, aggiornati secondo la finanza attuale, sono la soluzione del problema. Il Pdl ha sempre detto che non bisognava insistere sul deficit, bensì guardare al debito, cercando di realizzare un’operazione in cui non si tassasse il risparmio, e in particolare la casa. Si può tassare altro, e tassare di meno, riducendo le spese pubbliche senza tagliare i servizi.

 

Ma che cosa c’entrano Giavazzi e Padoa Schioppa con la scelta di tassare di meno?

 Letta sta recependo questo concetto fondante incontrando numerose difficoltà nel suo partito. E’ proprio per questo che deve citare Giavazzi e Padoa Schioppa, i quali non c’entrano nulla con questa cultura e sono piuttosto l’espressione dell’establishment e del neo-capitalismo che trova le sue roccaforti nelle banche e in particolare nella Banca d’Italia.

 

(Pietro Vernizzi)