Diciamo la verità, con lo spread un po’ ci abbiamo anche scherzato. Alzi la mano chi non ha mai fatto una battuta, chi non ha chiesto a un amico presunto esperto di spiegargli bene che cos’era questo benedetto spread, chi non ha dato lezioni di spread a tavola, chi non ha pontificato almeno una volta al banco di un aperitivo concionando di spread, di Germania egoista, di Bund e differenziali vari, di speculazione, cdo, cds e derivati. Arrivando poi inevitabilmente a parlare di “compiti a casa”, di “ricetta dell’austerità” o di “democrazia sospesa”. Per non dire della Merkel e del suo contorno.



Formidabili quegli anni! Verrebbe da dire. Sì. perché adesso di spread non ne parla più nessuno. Il motivo? Semplice: è sceso. Sceso fino a quota 250 ieri, cioè a un livello che quasi non dovrebbe più rappresentare un problema, a un passo da quella fatidica quota 200 che è considerata la giusta distanza di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, valutate le oggettive condizioni economiche, finanziarie e di competitività dei due paesi. Dunque è finita, o sarebbe finita, l’emergenza. E ovviamente non potendo titolare su un qualche allarme per il Paese, mancando anche le basi politiche per farlo, i giornali abbandonano l’osso. E lo spread zitto zitto cala. Smentendo se stesso e le tante, troppe, teorie sulla sua reale natura.



In realtà, non è finito un bel niente. Lo spread se ne sta andando esattamente come era arrivato, non essendo il cuore del problema, ma solo la misura esteriore di un evento conflittuale che si è manifestato e si esprime in vari modi. Entrato nelle nostre vite a partire dalla crisi greca da metà 2010, lo spread ha raggiunto il suo scopo una volta sostituiti tutti i governi nei paesi periferici dell’eurozona, cioè Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. È poi servito a instradare l’Europa sulla strada del rigore ossessivo ma non espansivo, e a generare quella recessione che sta aiutando il rientro degli squilibri commerciali tra i paesi dell’unione monetaria che unione non è. E dunque ha svolto con onore la funzione di terrorizzare i cittadini di mezza Europa, piegandoli ad accettare le giuste e doverose misure di sacrificale austerità.



È arrivato dunque, lo spread, perché i capitali scappavano impauriti dai paesi considerati più fragili, per andare a piazzarsi in quelli definiti più solidi; ora sta scemando, lo stesso spread, perché nel mondo c’è in giro tanta di quella liquidità in cerca di buoni affari – proveniente da Usa e Giappone, mica dall’Europa col fiatone – che alla fin fine i titoli di Stato dei paesi più debolucci non sembrano un investimento così cattivo come si riteneva. Perché in fondo dipende dagli occhiali che si usano.

Così ora lo spread scende e scende, dato che la guerra sottostante che ne causava la crescita, come fosse un indicatore acustico del conflitto in corso, sta terminando. Ringraziano i fondi che han speculato sulla crisi del debito. Ringraziano i sacerdoti del rigore espansivo che espansivo non era. Ringraziano tanti, ma non tutti. Ma non ci si illuda che tutto ora vada adesso a posto come se niente fosse. Gli anni del conflitto sono stati intensi, e in questo momento saremo anche in pace con lo spread, ma basta guardarsi attorno per capire che siamo circondati dalle macerie, che non abbiamo tutta la forza necessaria per ricostruire, e che soprattutto non siamo bene d’accordo sul come farlo. Già, a che serve avere spread zero se i soldi non arrivano lo stesso a chi li chiede e a chi ne ha bisogno sul serio?

Così paradossalmente il difficile incomincia con la fine dell’emergenza spread: più è basso e più c’è da star male a contare i feriti, i disoccupati di oggi e quelli di domani, le aziende che chiudono e chiuderanno. A contare i danni sul campo dell’economia reale, mentre quella di carta torna a far festa. E per sapere chi ha vinto e chi ha perso? Niente di più facile. Appuntamento tra cinque anni, a contare chi avrà comprato tra le macerie, facendo affari.

Si accettano scommesse. Anche a debito. Anche a leva. Con buona pace dello spread.