In questi giorni stanno aumentando, sulla stampa italiana ed europea, le critiche alla Banca centrale europea (Bce) e al suo Presidente Mario Draghi, non solo per ciò che fa o non fa, ma anche e soprattutto per ciò che dice o meglio non dice. Alcune testate hanno sottolineato le “ambiguità” del Presidente della Bce a proposito di alcune dichiarazioni – peraltro di difficile interpretazione – pronunciate a Londra. Altri lo accusano di “reticenza” e “supponenza” (nei confronti della stampa) per le sbrigative dichiarazioni alla conferenza stampa di giovedì. Altri ancora sostengono, a torto o a ragione, che sia più interessato alla sua carriera post-Bce nella piazza di Londra che a contribuire a risolvere i nodi dell’eurozona.



In Italia, la parte politica che lo ha proposto alla guida della Bce non nasconde che oggi non lo sosterebbe con eguale calore. Quella che aveva espresso dubbi afferma “noi lo avevamo detto”. Conosco Draghi da quando nel 1982 rientrai dalla Banca mondiale e lavoravamo ambedue allo stesso piano di via Venti Settembre – io all’allora Ministero del Bilancio come direttore del nucleo di valutazione degli investimenti pubblici, lui come consulente dei Ministri del Tesoro Andreatta, prima, e Goria, poi. Ho ricordo delle sue epiche liti telefoniche con la Banca d’Italia. Non sta certamente a me colorare analisi di simpatie o antipatie personali. Nel formulare un giudizio sulle polemiche in corso occorre tenere presenti due elementi:



1 – La Bce non è un organo monocratico o leaderistico, ma un’istituzione a guida collegiale. Il suo Consiglio è composto di ben 23 persone (24 tra breve), il suo Esecutivo di sei. Ciascuna è portatrice di visioni, e anche di interessi legittimi, differenti. È naturale che il Presidente tenti una mediazione prima di presentare, all’esterno, una posizione della Banca.

2 – Inoltre, nella prima fase di operazioni della Bce , i componenti dell’Esecutivo (sei) avevano preso l’abitudine di essere spesso sui giornali – ad alcuni di loro piaceva tanto! – a volte con affermazioni contraddittorie tali da mandare in fibrillazione i mercati. Di conseguenza, sono state stabilite procedure rigorose per la comunicazione istituzionale.



Ciò detto sarebbe auspicabile che, nell’interesse della trasparenza e della chiarezza, la Bce adottasse la regola della Federal Reseve americana: di pubblicare – dopo un lasso di tempo (sei-otto settimane) – i verbali delle riunioni del Consiglio, in modo che si possa comprendere meglio il processo decisionale (nonché le posizioni delle varie parti in campo).

Ci sono, però, almeno quattro punti in cui il silenzio della Bce è davvero assordante:

1 – Il credit crunch che blocca le imprese di numerosi Stati dell’Eurozona. La Bce ha modi e maniere di farsi ascoltare dalle banche e dall’opinione pubblica, tanto più che l’istituto è intervenuto più volte a sostegno di una comunità finanziaria che ha utilizzato i finanziamenti non perché arrivino all’economia produttiva, ma per lucrare sugli spread o pulire i propri portafoglio da titoli tossici.

2 – Gli interventi a proposito della Grecia. Alla documentata analisi del Fondo monetario internazionale, il Presidente della Bce ha risposto in conferenza stampa con un col senno di poi son tutti bravi (tirandosi dietro accuse di arroganza), ma non ha indicato quali lezioni se ne intendono trarre anche per l’immediato, per rimettere l’Europa su un sentiero di crescita.

3 – L’unione bancaria è gravemente impantanata. Hanno tutti diritto di sapere se è vera o meno l’analisi di Thomas Mayer della Deutsche Bank di Londra, secondo cui l’unione bancaria rischia di non decollare perché la Bce ha insistito per metterla su un sentiero impervio e senza sbocco o se l’errore è da attribuirsi all’Eurogruppo e la Bce ha subito (e sofferto) in silenzio. Nonché, soprattutto, cosa intende fare ora la Bce, alla vigilia del Consiglio Europeo di fine giugno.

4 – Che fine hanno fatto le Outright Monetary Transactions (OMTs) proposte da Draghi un anno fa e di cui nessuno ha più sentito parlare? Il Presidente aveva o non aveva il mandato di proporle? Se lo aveva, chi si oppone adesso all’idea? Se non lo aveva, perché le ha lanciate con tanto clamore mediatico?

Risposte a queste domande sono essenziali non tanto per il futuro di Draghi quanto per quello dell’eurozona.

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