In tutta sincerità, non riesco né ad appassionarmi, né a preoccuparmi troppo per la riunione della Corte costituzionale tedesca sulla legittimità del programma di acquisto Omt della Bce. Non perché la Germania non conti, tanto più che la Bundesbank è il principale azionista della Banca centrale europea, ma per un altro motivo: il Re è ormai nudo, il famoso bazooka annunciato la scorsa estate da Draghi è solo un’enorme pistola ad acqua. Mentre le istituzioni comunitarie tremano nell’attesa delle decisioni in arrivo da Karlsruhe, occorre infatti far notare due cose. Primo, la Germania a differenza degli altri Stati Ue ha sì messo in Costituzione il Trattato di Lisbona, ma con una postilla, ovvero il Bundestag resta sovrano su ogni tipo di decisione. Secondo, la Bce ha già abbassato aspettative e cresta rispetto al suo piano di acquisto obbligazionario.



In un articolo pubblicato domenica dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, si leggeva infatti che «per paura di un giudizio della Corte costituzionale federale, la Bce ha rivelato i confini entro i quali si muoverà il controverso piano di acquisto obbligazionario Omt». Per capirci, quello che doveva essere “illimitato”, pur di salvare l’euro “a tutti i costi”. Invece, non solo il fondo chiamato a gestire gli acquisti non ha ancora figura giuridica né regolamenti ma «la Bce ha limitato il suo programma a un volume massimo di 524 miliardi di euro e ha già comunicato questa decisione alla Corte tedesca». Insomma, il cagnolino ha smesso di ribellarsi al padrone abbaiando alla luna e ha detto chiaro e tondo che in caso di necessità ci saranno a disposizione 524 miliardi di euro per acquistare bond italiani, spagnoli, irlandesi, portoghesi e greci.



E perché lo ha fatto la Bce? Così recita l’articolo della Faz: «Apparentemente, per rendere il programma legalmente meno vulnerabile, tanto che la Bce ha comunicato di aver commissionato pareri legali rispetto al perimetro di azione dello stesso. L’Eurotower ha definito il processo come di “contenimento”». E ancora: stando ad altri dettagli, gli acquisti saranno possibili per titoli sovrani con scadenza massima tre anni e minima uno, quindi niente semestrali, né obbligazioni sulla parte alta della curva, quella più sensibile agli shock, speculativi e non. La Bce, ovviamente, dopo 24 ore ha smentito i particolari, ma se anche la Faz avesse creato lo scoop in casa (su dati che però ricalcano fedelmente le disponibilità del fondo Efsf ed Esm, segnale in codice che la Bundesbank è pronta a chiudere comunque i rubinetti), fa capire che la pressione cui la Bce è sottoposta da Berlino non consentirà a Draghi particolari equilibrismi: soprattutto, da qui al 22 settembre prossimo, data del voto politico in Germania.



Ora, al netto di una situazione simile, vi pare che ci sia da temere o sperare troppo nelle decisioni che arrivano da Karlsruhe? L’eurozona, così come la conosciamo, è già morta e sepolta, serve soltanto mettersi d’accordo sulle modalità per le esequie. Non ci credete? Bene, ricorderete immagino il mio articolo del 18 maggio scorso sul fatto che le principali banche avessero cominciato a “consigliare” caldamente ai propri clienti l’acquisto del nuovo bond ristrutturato greco, capace di segnare un aumento del 300% in un anno. Bene, negli ultimi sei mesi quel foglio di carta ha guadagnato un 119% e la Borsa di Atene un bel 53%, anche grazie alla certificazione di Ue e Fmi rispetto agli obiettivi debito/Pil di Atene: per i due organismi, il Paese era finalmente “stabilizzato”. Ma se così è, perché domenica lo stesso Fmi ha reso noto che si sarebbe rifiutato di partecipare a ulteriori programmi di salvataggio della Grecia, a meno che non fosse assicurato il finanziamento del Paese per dodici mesi? Forse perché la situazione è lungi dall’essere stabilizzata e ci sarà bisogno di un altro haircut da 4,6 miliardi di euro – appunto le necessità di finanziamento annuale – sui nuovi titoli per coprire le necessità di funding e fare in modo che il Fmi non lasci Atene e Ue al proprio destino?

Ora si spiega il perché di quel tardivo e non richiesto mea culpa sulla ricetta tutta austerity imposta alla Grecia, suonato a molti come uno scaricarsi la coscienza: era un messaggio in codice, abbiamo sbagliato – tutti – la ricetta e ora tocca rimettere mano al paziente. Ovvero, altra ristrutturazione del debito in arrivo per detentori allocchi (e magari stavolta anche per la Bce). Sarà per questo che la scorsa settimana il nuovo bond ristrutturato greco ha perso oltre il 10% di valore? Poi non dite che non vi avevo avvertito per tempo. Ma è il mondo obbligazionario in generale a essere in bolla, come ripeto da mesi e ora si sta avvicinando il redde rationem: stordita dalla massa di liquidità immessa sul mercato dalle varie banche centrali, l’umanità intera ha cominciato a cercare ovunque rendimenti, lanciandosi in acquisti sempre più estremi e rischiosi, l’high-yield di cui abbiamo diffusamente parlato nelle corse settimane.

A confermarlo, il Junk-Bond Yield Index della Fed di St. Louis e di Bank of America-Merrill Lynch, il quale traccia i rendimenti dei cosiddetti “bond spazzatura” e che durante il periodo peggiore della crisi vedeva soltanto percentuali a doppia cifra. Bene, all’inizio di quest’anno il valore medio del rendimento era del 6,19%, ai minimi da sempre, ma il 9 maggio è successo qualcosa: 5,24% di yield medio, con molte obbligazioni nell’indice addirittura al di sotto del 5%. Da allora, si è cominciati a risalire. È stato raggiunto il cosiddetto “floor”, ovvero il punto minimo da cui si può solo risalire?

Un dato è certo: grazie al doping della Fed, le emissioni di junk bond dall’inizio di quest’anno hanno già raggiunto un controvalore di 187 miliardi di dollari, un record. D’altronde, quando vi dicevo che un decennale ruandese che prezza il 7% di rendimento era follia collettiva, lo dicevo a ragion veduta. Il perché è presto detto: gli investitori più accorti stanno scaricando posizioni divenute ormai troppo pericolose e finora lo hanno fatto in punta di piedi per non spaventare la platea di allocchi che ancora gira sul mercato in cerca di soldi facili. Ma una volta che si sarà sparsa la voce, chi salirà in giostra chiederà un premio di rischio maggiore per acquistare quei titoli, facendo salire i rendimenti come mostra questo grafico: dal minimo annuale del 5,24% registrato il 9 maggio, siamo saliti al massimo annuale del 6,34% registrato lo scorso 6 giugno. Meno di un mese.

 

 

È la logica ontologica che sottende i junk bond, ovvero quella di poter fare facilmente default: quando l’easy money si prosciuga e la ricerca di rendimento sparisce per paura di restare con il cerino in mano, i rendimenti schizzano perché chi emette deve pagare un premio di rischio maggiore sui mercati per finanziarsi. È così per gli Stati, ma anche per le aziende, le quali stanno emettendo obbligazioni come se non ci fosse un domani per finanziarsi bypassando il credito bancario, anche in Italia. Il problema è che pagando rendimenti alti, si fa crescere anche il debito su cui si è seduti, ma a un certo punto l’intera catena si sconnette: e molti emittenti non trovano compratori a nessuna condizione.

Guardate questo altro grafico: ci mostra l’andamento dei rendimenti negli anni e come potete vedere da soli, il picco di risalita dal 9 maggio in poi è solo un ridicolo baffetto rispetto a quanto accaduto in tempi anche recenti. Ma quando il debito esplode e l’easy money non copre più i troppi buchi della bolla, questa fa boom e la gente si fa male: da un baffetto di risalita non ci vuole molto tempo a ritrovarsi su una traiettoria che punta alle stelle. È tutta psicologia del mercato, spesso un driver più potente dei dati macro.

 

Inoltre, il settore dei junk bond è solo una parte – quella più esposta e vulnerabile – della più grande bolla obbligazionaria globale innescata dalla Fed, la quale ora comincia a parlare di sospendere o rallentare il programma di stimolo all’economia, il cosiddetto “tapering”, spedendo nel territorio dell’incertezza gli investitori. Non è un caso che il Global Bond Market Index sempre di BofA abbia perso il mese scorso l’1,5%, il peggior risultato dall’aprile del 2004. E non è un caso nemmeno che i fondi obbligazionari stiano scaricando con maggior vigore due categorie di bond, i corporate a lungo termine e gli high-yield, con i fondi dei paesi emergenti stracolmi e ora impegnati in vendite di massa. Addirittura, Steve Russell e Hamish Baillie del fondo pensione e sanitario britannico Ruffer, parlano di «un possibile momento in stile 1994, quando gli investitori persero contemporaneamente sia sull’azionario che sull’obbligazionario a causa dell’aumento dei tassi d’interesse. È un quadro davvero preoccupante». Tanto più che a Societe Generale, gli analisti hanno confermato tassi negli Usa al 2,75% entro fine anno, un previsione che se si confermasse farebbe molto male sia ai titoli che alle obbligazioni.

Questa è la domanda da porsi: quanto e quanto velocemente potranno risalire i tassi senza trasformarsi in elefanti in una cristalleria? Nel frattempo, più che a Karlsruhe, guardiamo a Roma: tra domani e giovedì verranno emessi Bot e Btp per un totale di 15 miliardi di euro. Un test che, alla luce di quanto vi ho raccontato, potrebbe farsi interessante.