Ora, che i tedeschi non stiano esattamente facendo un favore ai mercati con il loro teatrino di Karlsruhe è palese, ma si sa, sono fatti così. Che però sul mercato obbligazionario qualcosa stesse per accadere lo si sapeva da giorni, ben prima che il Quarto Reich si chiudesse nell’aula della Corte costituzionale per decidere il destino dei sudditi. Due i segnali che fanno temere per un epilogo in stile 1994: la mancata rotazione dai bond all’azionario e il rialzo continuo nei rendimenti.
Partiamo da questi ultimi. Dal 6 giugno a ieri lo yield del Treasury a 10 anni aveva preso 28 punti base (addirittura il trentennale è al massimo da 14 mesi), quello del Bund pari durata 18 punti base, il rendimento del decennale giapponese 9 punti base e quello turco addirittura 83 punti base. A fronte di questi chiari segnali di vendita sui mercati obbligazionari, dal 6 giugno a ieri l’indice S&P 500 aveva perso il 2%, il Nikkei il 5,5%, l’Ibex il 5%, il Ftse Mib il 4,8% e l’Ase di Atene quasi l’11%. Insomma, il Frankenstein delle banche centrali non ha funzionato.
Nonostante tutto, però, ieri l’Italia ha collocato tutti i 7 miliardi di euro di Bot a un tasso in aumento allo 0,962%, i massimi da marzo, con una ratio bid-to-cover a 1,49 da 1,16. Lo scorso mese, il Tesoro aveva collocato Bot a 12 mesi allo 0,70%. Nessuna sorpresa: martedì a fine seduta, sul grey market di Mts, il Bot in asta ieri rendeva 0,975% contro 0,703% di metà maggio, il tasso più basso dall’introduzione della valuta unica.
“La crescita del rendimento era scontata sulla scia dell’aumento delle tensioni sui mercati finanziari evidenziata nelle ultime sessioni: debolezza dei dati macroeconomici dei paesi dell’Europa periferica, immobilismo della Bce, indiscrezioni sulle limitazioni del piano Omt, mancate sorprese da parte della BoJ”, ha commentato a caldo con MF-Milano Finanza, Filippo A.Diodovich, market strategist di IG Italia. “L’importante è stato collocare i titoli al di sotto della soglia psicologica dell’1%. Ottima anche la domanda. Grazie alla crescita del rendimento il Bot annuale ha aumentato la sua appetibilità soprattutto nei portafogli degli investitori istituzionali esteri”, ha precisato l’esperto.
Ma le aste proseguono anche oggi, con i titoli a medio-lungo termine: l’offerta è di 2,5-3,5 miliardi sul Btp maggio 2016, 1-1,5 miliardi sul settembre 2028, più 2-3 miliardi della riapertura del Ccteu novembre 2018. “Per quanto concerne il Btp a 3 anni, il rendimento dovrebbe mostrare, secondo le nostre attese, una crescita al 2,38% circa dall’1,92% dell’asta precedente con un bid to cover ratio compreso tra 1,40 e 1,60”, prevede Filippo A. Diodovich. Vedremo se avrà ragione. Una cosa è certa, a mio avviso: i paesi periferici dell’eurozona non potranno sfuggire dalla crescente volatilità dei mercati. Troppi i fattori sul tappeto: la Fed che non offre garanzie sulla prosecuzione delle misure di stimolo, la Bank of Japan che semplicemente resta a guardare i rendimenti dei bond nipponici salire e il Nikkei schiantarsi quasi in territorio da bear market ufficiale e l’eurozona che non presenta alcun miglioramento dal punto di vista dei dati macro.
Martedì il rendimento del decennale greco ha preso 63 punti base salendo al 10,22%, quello portoghese 34 punti base al 6,59%, quelli italiano e spagnolo 7 punti base salendo rispettivamente al 4,34% e 4,66%. Per Nicholas Spiro, della Spiro Sovereign Strategy di Londra, “nei mesi passati si è vissuta calma sui mercati obbligazionari, forse perché non si riusciva a identificare con chiarezza un catalizzatore che portasse i rendimenti a salire significativamente. Ora è il contrario, è difficile dipingere uno scenario che non contempli questo rischio”.
D’altronde, per mesi gli spread sono stati placidi: quelli italiano e spagnolo hanno pascolato sui minimi dell’inverno 2010. In aprile e maggio, poi, un calo ulteriore, nonostante il quasi default di Cipro a ricordare come l’eurozona fosse tutto tranne che stabilizzata. Ora la tregua è finita, almeno così ha sentenziato nel suo ultimo report Janet Henry, capo economista di Hsbc per l’Europa: “Ultimamente un senso di calma ha pervaso i mercati obbligazionari dei paesi periferici. Comunque sia, l’aumento a livello globale dei rendimenti dei bond, che ha portato con sé anche un aumento degli yields nei periferici, ci ricorda che presto i fondamentali potrebbero tornare a contare ancora. Attualmente, i periferici sono ben lontani dall’essere stabilizzati. Non c’è ritorno alla crescita, i tassi di disoccupazione stanno salendo a livelli socialmente inaccettabili e le proiezioni sul debito continuano a essere riviste. Questa realtà economica ci suggerisce che i mercati finanziari potrebbe risvegliarsi brutalmente dallo stato d’animo compiacente avuto finora. La calma, come quella attuale, non è reale”.
E in effetti le stime di crescita per i paesi più esposti continuano a essere riviste. Ieri Barclays ha abbassato le stime sulla crescita dell’Italia per il 2013 e 2014, in base a una proiezione della domanda interna più bassa del previsto. Il nostro Pil dovrebbe quindi contrarsi dell’1,7% quest’anno e salire dello 0,8% il prossimo, contro le stime precedenti di -1,5% e +1%. Ma c’è di peggio. In una nota, il capo economista di Citi per l’Europa, Willem Buiter, parla a chiare lettere di debiti sovrani in traiettoria ormai insostenibile per Cipro, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna. Paesi che per Citi dovranno affrontare – tutti, più la Slovenia – una ristrutturazione del debito entro il 2017.
E che, come vi dico da tempo, il caso Grecia è ben lungi dall’essere risolto, non ce lo ricorda solo il crollo del prezzo del nuovo bond ristrutturato, ma anche il fatto che ieri Msci, i cui indici equity sono tracciati da investitori con un totale di 7 triliardi di dollari in assets, ha operato un downgrade della Grecia, portandola allo status di “Paese emergente”, a causa principalmente del crollo dell’83% della capitalizzazione della sua Borsa dal 2007 a oggi.
La decisione segue quella presa in marzo dalla Russell Investment, advisor per fondi di investimento con assets per 2,4 triliardi di dollari, anch’essa certa che il rischio che comporta operare in Grecia sia pari a quello di un Paese emergente e non sviluppato. “Abbiamo già notato flussi di capitale tornare verso luoghi rifugio e la decisione della Msci potrebbe esacerbare questa dinamica”, avverte Peter Sorrentino, manager alla Huntington Asset Advisors con un portafoglio investimento da 14,7 miliardi di dollari: “Il downgrade riporta la Grecia quasi all’inizio della sua triste epopea ed è un chiaro segnale che la crisi in Europa e ben lungi dall’essere terminata”.
E signori, ci piaccia o meno, l’Europa ha già dato vita al suo QE, anche se mascherato da salvataggi statali e vale qualcosa come 500 miliardi di euro. Cipro ne riceverà 9, la Grecia ha avuto il via libera per un totale di 243 miliardi, l’Irlanda ha ricevuto 85 miliardi per salvare le sue banche, altri 78 andranno al Portogallo e la Spagna ha ricevuto 41 miliardi per ricapitalizzare la banche, ma ha disponibilità massima potenziale di 100 miliardi. Ovviamente le nazioni salvate o sotto salvataggio attraverso i vari Fondi ad hoc dell’Unione non mettono un soldo per finanziarli: la Germania garantisce per il 27% dei prestiti, la Francia per il 20% e l’Italia per il 18%.
E questi soldi, che non sono stati versati interamente nei Fondi, non vengono conteggiati con liabilities contingenti, ovvero non finiscono nella ratio debito/Pil dei tre paesi. Resta però che sono delle liabilities, piaccia o meno a Draghi e che tra Efsf (155 miliardi di euro) ed Esm (50 miliardi di euro), i fondi effettivamente distribuiti sono già a quota 205 miliardi. Risultato, finora? Nullo. Forse è il caso di ripensare tutto. Ue in testa.