È tempo di confronti storici per stabilire se, per dirla con Reinhart-Rogoff, “stavolta è diverso…”. Proviamo a farne qualcuno. Il primo è d’obbligo. Nel 1937 l’Amministrazione Roosevelt si trovò a fronteggiare una seconda onda di Great Depression. A provocarla fu un errore di valutazione del governo e della banca centrale. Grazie alle misure espansive adottate dopo il 1933, il reddito nazionale americano era risalito a 72 miliardi di dollari contro i 40 del 1932 (sempre sotto agli 82 miliardi del ‘29), anche se c’erano ancora 4,5 milioni di famiglie che vivevano di sussidi e 7,3 milioni di disoccupati. Ma a Washington, spaventata dalla massa del credito cresciuta a 30 miliardi di dollari, prevalse l’allarme per l’inflazione e partì la stretta sui tassi. Il risultato? L’indice della produzione crollò da 117 (agosto 1937) a 76 (magio 1938) e i disoccupati salirono di altri 4 milioni di unità. Fu lo shock che spinse Roosevelt ad adottare una politica aggressiva, di stampo keynesiano. Difficile capire, però, come sarebbe andata a finire se lo scoppio della guerra in Europa non avesse drammaticamente cambiato lo scenario anche oltre Atlantico.



Quasi in parallelo si svolgeva la parabola politica del visconte Takahashi, prima governatore della Bank of Japan e poi, dal 1931 al 1936, quasi ottantenne, ministro delle Finanze del governo imperiale. Dopo aver abbandonato il gold standard, Takahashi asseconda la discesa dello yen (alla fine avrà svalutato del 40%). I tassi d’interesse vengono dimezzati, dal 6% al 3%. La Banca del Giappone effettua acquisti massicci di titoli governativi, un Quantitative easing ante litteram assai lodato ai tempi nostri dallo stesso Ben Bernanke. Inoltre, la spesa pubblica viene subito aumentata nonostante il Giappone abbia già un debito pubblico pari al 50% del Pil, per l’epoca molto alto.



Le esportazioni migliorano rapidamente, poi è la volta dei consumi e infine degli investimenti. Dal 1932 al 1936, gli anni di Takahashi ministro, il Pil giapponese cresce del 55%. Ma cresce anche la spinta degli ambienti ultranazionalisti. Takahashi viene ucciso da un colonnello nel 1936 nel corso di un golpe organizzato da quell’esercito che tanti vantaggi aveva ricavato dalla nuova politica economica. Il golpe fallisce, ma i partiti si ritirano sempre più dalla scena. Sotto pressione dell’esercito e della marina le spese per il riarmo accelerano. L’inflazione, molto contenuta sotto Takahashi, diventa iperinflazione. “È l’ennesima prova – ha commentato su Il Rosso e il Nero Alessandro Fugnoli di Kairos – del fatto che le politiche di reflazione, corrette quando abbondano le risorse inutilizzate, diventano pericolose quando chi ha il potere si ingolosisce (e accade quasi sempre) e forza la crescita oltre i limiti del sistema”.



I riferimenti alla situazione attuale saltano all’occhio. Negli Usa la Federal Reserve ha lanciato segnali inequivocabili sulla volontà di frenare gli acquisti di titoli previsti dal Quantitative easing. Anzi, il cambio di rotta è già avvenuto. Da meno di una settimana i titoli di Stato Usa sono risaliti oltre la soglia di inflazione. Ovvero i mercati, fino a poco tempo fa alla ricerca di porti sicuri, oggi chiedono di nuovo un premio per i loro interessi. E la banca centrale, invece che reprimere la richiesta con una pioggia di liquidità (nel gergo, si parla di financial repression) asseconda il nuovo look.

Il risultato? In Borsa d’ora in poi non si applaudiranno più le cattive notizie dell’economia reale perché foriere di intervento a favore della finanza. Al contrario, i mercati saliranno a fronte di buone notizie (sul fronte del lavoro ancor più che della crescita). Ma scenderanno se la ripresa si rivelerà un flop. Si spiega così la frana del mercato obbligazionario, così come il terremoto che sta investendo i mercati valutari di tutto il mondo. Alla ricerca di nuovi equilibri.

Insomma, è probabile che la decisione sul Qe non venga presa dal prossimo vertice del 18-19 giugno, ma in quell’occasione ci saranno nuove conferme sulla frenata futura: dagli attuali 85 miliardi al mese a 60, poi a 50. Poi si vedrà. Tutto dipenderà dalla reazione dell’economia reale, che cresce ma a tassi “tra il moderato e il modesto”. Ma la ripresa dell’immobiliare, combinata con il recupero favorito dalla produzione di energia garantita dal boom dello shale gas, consigliano la Fed di iniziare la strada verso la normalità.

Il mondo, come Bernanke sa benissimo, si muove in terra incognita. Mai il mondo è stato innaffiato da tanta liquidità. E nessuno sa quale potrebbe essere la reazione dei mercati: è tutt’altro che da escludere una sindrome da Giappone fine anni Trenta se non si interviene per tempo. Tra un anno, infatti, in America si vota per il mid term: niente di più facile che la Casa Bianca chieda di confermare la spinta espansiva per garantirsi un consenso di questi tempi assai ammaccato a causa delle varie spy story. Ma Bernanke, il maggior studioso mondiale della crisi del ‘29, sa che occorre muoversi con grande prudenza.

La Fed lo sta facendo utilizzando il kamikaze di fiducia: Shinzo Abe, il premier giapponese che, in piena sintonia con gli Usa, ha lanciato a gennaio una politica molto aggressiva sul fronte dell’espansione della base monetaria per risvegliare l’economia. Dopo il primo affondo, però, il samurai ha annunciato che per ora non ne lancerà altri: il Pil già cresce, l’export pure. Facile che la decisione possa esser rivista, dopo la frana della Borsa e la risalita di bond e yen. Ma Abe, su invito degli Usa, ha lanciato il segnale più importante: Tokyo non sarà più schiavo dei voleri del mercato.

Cosa cambia per l’Italia? Due le notazioni negative. Primo, il movimento al ribasso dei tassi è finito, come dimostra il brusco aumento dei rendimenti delle aste di metà giugno. Nessuno si illuda di poter disporre di un tesoretto ricavato dai minori interessi. Secondo, se il nuovo paradigma sarà di premiare i Paesi in crescita in materia di Pil e nuova occupazione, il Bel Paese rischia grosso se non abbandona al più presto la posizione di fanalino di coda in entrambe le materie.

Guai a ignorare o minimizzare questi segnali. Per concludere con un altro riferimento storico, nel 1982 l’Italia ignorò il cambio di passo della Fed: Paul Volcker, quell’anno, avviò una politica di costo del denaro crescente per debellare una volta per tutte l’inflazione. L’Italia reagì al trend tardi e male. Per uscire al più presto dalla crisi vennero prese misure espansive, senza troppo badare alle conseguenze sulla finanza pubblica. Il risultato fu l’accelerazione del debito trainato da tassi reali sempre più elevati al servizio di un’inflazione agganciata alla scala mobile. Si generò così il male oscuro del debito, mai affrontato in seguito con una terapia seria e credibile, nonostante le occasioni fornite, tra il 1996 ed il 2007, dal processo di convergenza poi culminato nella nascita dell’euro. Chissà, speriamo che stavolta sia “davvero diverso”.