Quando don Giussani – nei primi anni ’90 del secolo troppo infantilmente ridotto a materia sterilmente archivistica o, peggio ancora, veterodottrinale – definì Berlusconi come “l’uomo della Provvidenza”, qualche scaltro commendatore delle carte italiche si scandalizzò, chissà forse reputando inaccettabile l’accostamento tra l’uomo della Provvidenza, anche detto zio Ben, e quel nuovo politico, tutto tranne che homo novus, ma già così vitalisticamente accattivante per il nostro mercato politico. È sempre così: i moralisti sbagliano, perché prima giudicano e poi, mentre sperano di innalzare gogne pubbliche, vengono superati, quando non travolti, dai fatti. Don Giussani aveva visto giusto, sui moralisti un tanto al chilo non sprechiamo altro inchiostro.
Insomma: Berlusconi frenava l’ascesa egemonizzante dei cosiddetti “post-comunisti”, mentre la vera sinistra creativa e italiana giaceva barcollante, fino al sopraggiungere, alla fine di quel devastante decennio, alla morte del più geniale politico italiano, insieme a De Gasperi, Andreotti, Fanfani e qualche altro ispirato dal genio patrio: Bettino Craxi. Niente nostalgia, sempre canaglia. Ma un fatto è oggi incontrovertibile: questa genìa post-comunista, sconfitta, sta perdendo, sul piano ideologico, in Europa; non ha retto con la tecnocrazia al governo; e oggi sta con la destra berlusconiana a fare governance di medio-alto livello, con risultati apprezzabili, fermo restando che, nel nulla, un punto fermo è sempre un punto fermo, cioè qualcosa di vero e solido. Da sostenere.
Ecco, siamo giunti al momento della verità: se vuoi tenere in Italia, devi fare la battaglia contro la Germania, in Europa e per l’Europa. Linea berlusconiana al grado zero: dopo il governo di larghe intese, il Cavaliere incassa anche questo punto. Niente apologetica da osteria, qui il nodo è un altro e puzza di storia lontano un miglio. Osserviamo i dati: se il Telegraph, quotidiano inglese di punta, dice grazie a Berlusconi per questa strepitosa boutade così intrisa di realismo e senso della storia e, accanto alle sue dichiarazioni, si allineano, in modi e forme specifici, tanto il Fondo monetario internazionale, nella persona del suo direttore generale, la francese Christine Lagarde, che il capo della Banca mondiale, Jim Yong Kim, per non parlare, tra i giornalini, del Financial Times, qui la questione è così sintetizzabile: Roma locuta, causa finita.
Tradotto in analisi politica del rischio: se a Karlsruhe, i giudici della Corte costituzionale tedesca, smontano il giocattolo di Draghi, dal suggestivo acronimo Omt (Outright monetary transactions), salta l’Europa come risposta storica ai bisogni politici di oltre 600 milioni di abitanti del pianeta. Né più, né meno. A questo livello, entrano in gioco molte variabili, ma una tra tutte determinerà la deriva politica di questa vicenda: la qualità storica e culturale delle élites al comando in Europa. La Germania non è né un feticcio, né un ostacolo in assoluto: è soltanto un vincolo che ha cessato di essere opportunità da troppo tempo e ora qualcuno, ancorché vincitrice in patria, pagherà il conto di questa realtà ormai universalmente riconosciuta.
Draghi sta pensando politicamente la partita del debito dei paesi dell’area sud-europea non in termini di euro, ma in chiave di tenuta del sistema nel suo complesso. Ecco perché la Germania sbaglia chiave di lettura e, di conseguenza, risposta, aprendo il contenzioso come se fosse l’unico attore e oggi competitor. Una competizione interna a un sistema come l’Ue – con questi chiari di luna e con le economie del resto del mondo a tirare, se non a più non posso, al meglio delle possibilità – ha un solo nome: suicidio dell’Europa. Un tema storico già analizzato da Albert Camus e Maria Zambrano, e sempre in riferimento al pericolo di un’egemonia tedesca sul continente europeo.
Un’egemonia che potrebbe avere un successo così forte da travolgere la stessa realtà egemone. Del resto, Benedetto Croce, in un mirabile saggio del 1943, “Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa”, pur tifando come un hooligan per la squadra teutonica, vittima, in fondo, delle malìe del Reich nazista, ma non colpevole in toto, chiudeva così: il “popolo tedesco” è spiritualmente sano, dunque “la vergogna, che esso non potrà non provare, del male di cui si è fatto strumento, si convertirà in forza di bene come nei grandi santi che erano stati grandi peccatori”.
Siamo sul filo del rasoio e non forzerò Croce fino al punto di dargli dell’illuso, perché la storia non si replica sempre sugli stessi schermi, e oggi, forse, siamo in 3d. Un fatto è, però, assodato: nella vita degli individui, come in quella dei popoli, la linea di confine è sempre schierata tra il farcela, magari a ogni costo, e l’arretramento, perché no?, affannoso. Ecco, la Germania, di fronte a una Bce, governata da un italiano che sta ragionando politicamente e strategicamente, e dunque – ragionevolmente – non arretra, rischia di irrigidirsi nella sua ansia di farcela a ogni costo. E così saremo ben oltre il cerchio della vergogna, descritto da Croce. Saremo – come, è tutto da vedere – altrove.