Con i suoi 57 articoli e 61 pagine, nella versione “provvisoria” (i tecnici stanno limando il testo), il “decreto del fare”, prodotto dopo un Consiglio dei Ministri durato numerose ore, è da ieri all’esame di commentatori e analisti economici. Nei prossimi giorni, sarà al vaglio delle Commissioni parlamentari che, con il supporto degli uffici di Camera e Senato, ne sviscereranno implicazioni in termini di finanza pubblica e di impatto sull’economia reale, con particolar riguardo alla crescita (specialmente dell’occupazione e in specie di quella giovanile).



Per una volta, il vostro “chroniqueur” toglie la casacca dell’economista e decide di non trattare né di coperture finanziarie delle varie misure, né delle ramificazione sul tessuto economico del Paese. Per il modo in cui è nato – una lunga trattativa mentre il “fuoco amico” sparava sul traballante Governo delle “grandi intese” e almeno due delle principali forze politiche del Paese si torturavano su “problemi” che riguardavano (al più) i loro rispettivi ombelichi – il “decreto del fare” è un ulteriore sintomo (forse il maggiore) della scarsa capacità dei partiti di essere il canale di trasmissione tra le varie forze esistenti nella società del Paese, da un lato, e il Governo e il Parlamento, dall’altro. È l’inadeguatezza, ove non la rottura, di tale canale alla base di un malessere che difficilmente potrà essere curato unicamente o principalmente da riforme istituzionali quali quelle che da decenni si stanno mettendo in cantiere (senza peraltro arrivare a conclusioni).



Anche in Italia è giunto in traduzione il libro, divulgativo ma fondato su una profonda e vasta strumentazione teorica, di Daron Acemoglu e James Robinson su come l’elemento politico spieghi perché alcuni Paesi crescono e altri declinano. La nuova political economy utilizza sempre più frequentemente gli strumenti della politologia per comprendere “come si fa politica economica” (mutuando dal titolo di un saggio breve ma fondamentale di Avinash Dixit scritto un quarto di secolo fa ma mai tradotto in italiano). Allora, in un centinaio di pagine, Dixit faceva ricorso alla teoria di gioco applicata ai processi politici per illustrare come politica economica “normativa” (quella che analizza come si fissano obiettivi e si raggiungono) e politica economica “positiva” (quella che spiega i comportamenti di individui, famiglie, imprese, istituzioni) potessero trovare un ponte.



Oggi le “nuove teorie della democrazia” – analizzate in Italia da anni, ad esempio, da Gianfranco Pasquino e oggetto anche di un bel lavoro della Fondazione CittàItalia, il “pensatoio” dell’Anci – mettono sempre più frequentemente in evidenza come il sistema di “democrazia rappresentativa” (con una forte intermediazione partitica) sia adatto a società dove l’integrazione economica internazionale, da un lato, e le esigenze di varie fasce della popolazione dall’altro, impongono di “deliberare” speditamente. Altrimenti, si perdono punti nell’agone internazionale e ci si autocondanna al declino.

Le teorie della “democrazia deliberativa” mettono sotto accusa il sistema dei partiti, che ritengono non più in linea con le esigenze del XXI secolo. Nati come forme elitarie di partecipazione alla politica nel Settecento, hanno ben retto alla trasformazione in partiti di massa nel Novecento, ma non svolgono più le loro funzioni nel mondo dell’integrazione economica internazionale, della cibernetica e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Non so quanti economisti abbiamo letto il breve saggio di Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, pubblicato in Italia da “Il Mulino” nel 2010, e frutto di una lettura all’associazione che ha sede a Bologna. Manin, sessantenne, nato a Marsiglia, dopo una brillante carriera nelle “Grandes Ecoles” francesi, è da anni titolare di cattedra alla New York University, dove dirige il centro di ricerca in studi politici e sociali. Appartiene, quindi, alla cultura dei due continenti e studia l’evoluzione di come si fa politica (e politica economica) in America e in Europa. Il saggio citato è incentrato sulla metamorfosi della democrazia segnata dal declino in atto da diversi anni dell’influenza dei partiti nella politica contemporanea e la parallela valorizzazione del ruolo dei leader e della comunicazione.

Sempre più, infatti, nella “società del pubblico” che stiamo vivendo, il confronto tra gli individui si sta sostituendo a quello fra grandi ideologie interpretate e supportate da grandi organizzazioni partitiche. Non so neanche se i leader del M5S abbiano letto il saggio menzionato (e le più vaste opere di Manin). Se i leader del Movimento lo hanno fatto, vi hanno trovato indicazioni utili per la loro affermazione alle elezioni politiche e per il successo dei partiti “vecchi” a quelle amministrative. Se non lo hanno fatto, vi potranno leggere suggerimenti su come superare le difficoltà in atto. Quale che sia il caso, il saggio spiega l’attenzione del Governo degli Stati Uniti e degli studiosi americani nei confronti della miscela di democrazia diretta e rappresentativa su cui pare fondato il M5S.

Più importanti della implicazioni per il M5S, sono quelle per la riforma del sistema politico italiano. Non si tratta principalmente di ricamare nuove forme di cameralismo, di presidenzialismo, di leggi elettorali, ma di trovare l’equilibrio tra “democrazia rappresentativa” e “democrazia deliberativa” che consenta decisioni più spedite (e se possibile di migliore qualità) di quelle che hanno portato al pur decentissmo “decreto del fare”. Un processo già compiuto negli Stati e in corso nella Repubblica federale tedesca e in numerosi Stati nordici.

La strada è lunga e impervia. Qualcuno (al di fuori delle torri eburnee delle università) ha cominciato a percorrerla? Se nessuno lo fa, si resterà sempre indietro.