Lo stato – rigorosamente con la minuscola – è stato, chiosava sornione e feroce il grande Carmelo Bene. Mica sbagliava il gigante dell’anti-teatro contemporaneo: è così. In fondo, si tratta del participio passato del verbo essere. Noto già ai tempi del Machiavelli, già studiato e linguisticamente assodato, non v’è dubbio; dunque di foggia pubblica e certa temperanza linguistica. Infatti di Machiavelli si deve innanzitutto vantare la primigenia perizia filologica – in riferimento al saggio “intorno alla nostra lingua” (1524-1525) – e di un grande produttore di governo totalitario come Stalin non si può trascurare la tematizzazione del nesso tra il marxismo e la linguistica (1950): lo Stato, in questo caso con la necessaria maiuscola, diventa qui lo stesso problema di Carmelo Bene.
Solo che, per il genio dell’anti-teatro, lo stato è stato, dunque è costitutivamente incapace di bene, laddove, per Machiavelli e Stalin, con le dovute differenze, lo Stato è l’intero universo linguistico e antropologico dell’umanità, l’unico capace di quel tanto di Bene, a misura almeno delle necessità degli uomini, legni storti, incapaci così di autogoverno. C’è dentro tutta la teologia del sospetto possibile, circa l’uomo e le sue capacità di operare il bene e per il bene; ma, ancor più radicalmente, c’è dentro quella cultura del sospetto che ancora oggi definisce la triste aura dello stato, che, da Leviatano imponente, si è ridotto a contenitore di tecnoburocrazia un tanto al chilo.
Se ti rivolgi alla pubblica amministrazione – censura linguistica (ancora una volta il linguaggio) per ridire la forma-stato, senza impressionare gli “utenti-cittadini” -, sei sempre nel circolo del sospetto, anzi devi, tu per primo, sospettare di te stesso. Puoi anche fare tutte le autocertificazioni che vuoi e perfino imparare a compilare quei demenziali moduli definiti redditometri e dintorni, ma sarai sempre, a priori, un soggetto degno di essere messo sotto stretta sorveglianza. Nella misura in cui esisti, sei un potenziale evasore o malfattore, finanche un possibile cittadino onesto, ma – osservare il paradosso, please – a condizione che lo stato garantisca la natura specifica della tua onestà.
Insomma, io speriamo che me la cavo qui non vale e Parigi o Roma, fate vobis, non vale una Messa. Lasciate stare, in soldoni: non si dialoga con il leviatano minore, oggi detto pudicamente P.A. – Pubblica Amministrazione (ah l’acronimo, ultima deriva del riduzionismo linguistico). Ecco, questo è lo stato delle cose, tradotto: lo stato. Ora, questa macchina leviatanica minore e minorata deve far fronte a tutto ciò che Giulio Sapelli ha acutamente descritto su queste pagine: deve fare l’imprenditore e deve farlo bene. No all’Iri, che diamine, sì all’imprenditoria della macchina leviatanica minore, in questo stato di eccezione permanente che si chiama Italia.
Allora, dalla lingua passiamo alla realtà dei fatti e lo stato, piaccia o no, serve ancora. È, di contro, uno stato che, per dirla con Mises, produce una sorta di pianificazione del caos, ma è pur sempre una leva di redistribuzione di forze economico-sociali e produttive, insomma un agente dell’espansione del capitale pubblico. Questa è una ragionevole proposta, ma aggiungerei: per prevenire.
Esempio, ormai di scuola: l’Ilva. Abbiamo un fronte di potenza dirompente, una vera e propria forza d’urto strategicamente orientata, che si chiama magistratura, la quale ha deciso di fare la rivoluzione fuori tempo massimo, usando i limiti di una ciclopica megastruttura produttiva come l’Ilva. Giudichiamo la realtà sine ira ac studio, senza fremiti di rabbia scaturenti dal profondo, anche perché è un film già visto mille volte; si tratta innanzitutto di una dinamica da comprendere. Traduzione in volgare: massacro del cda dell’Ilva, criminalizzazione dell’intera classe dirigente del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, uso dell’inquinamento, dell’ambiente malato, cause oggettive e documentate, ovvio, ecc. come se niente fosse, fingendo di dare tempo e modo alla dirigenza di uscire fuori dignitosamente per poi vibrare il colpo finale.
Morale della favola: il cda si dimette – a giugno ne vedremo delle belle all’assemblea degli azionisti – e così il fariseismo di stato vince. Domanda: chi perde? Perde evidentemente l’unico fattore soggettivo in grado di rilanciare una comunità, quella cosetta strana – e oggi quasi un corpo estraneo non ben identificabile nel comune senso del vivere quotidiano – che si chiama lavoro. Figuratevi, cosa volete che sia: 40.000 posti di lavoro, indotto incluso? E allora? Ma la testa del re è caduta e il giacobinismo di stato ha vinto.
E così la politica economica viene gestita – attenzione: dico gestita – al pari di come lo stato vorrebbe gestire – ripeto: gestire – le libertà soggettive, come il Card. Scola, a Roma, ha recentemente richiamato, parlando di libertà religiosa. Dunque, abbiamo un altro paradosso: uno stato-fantasma che si rivela mazza d’acciaio contro la società civile e l’economia, proprio quando dovrebbe allargare, di contro, lo spettro reale della sussidiarietà e della facilitazione della libera intrapresa. Non basta: la magistratura è un ordine e non un potere (come diceva Cossiga: i magistrati sono semplici “vincitori di concorso”), ma, in questo caso, ha di fatto contrastato la società civile e produttiva fin nelle pieghe della governance aziendale dell’Ilva.
Ciò non significa che non vi siano seri motivi per affrontare il rapporto Ilva-ambiente (nel suo aspetto complessivo) in maniera adeguata e rispettosa della civiltà dell’uomo, ma questo sano richiamo non deve, diabolicamente, rovesciarsi in pretesto per stroncare, chiudere e poi giustificare un ruolo eccedente a quello costituzionalmente previsto. Del resto, il ministro dell’ambiente del precedente governo tecnico, Clini, aveva correttamente e a più riprese richiamato questo punto.
Ma non basta. Accanto a questa posizione della magistratura, troviamo il ruolo dell’altro organo, non previsto, di organizzazione e definizione della politica economica nazionale (per quel poco che di nazionale è rimasto, soprattutto a livello di ricadute procedurali), che si chiama Ragioneria generale dello stato. Cioè la mera contabilità a uso dei tecnocrati e della cosiddetta vigilanza esterna sul ruolo – ritenuto sempre a priori sospetto, ripeto – della politica e di chi, come soggetto attivo, in essa è implicato.
Anche su questo punto, si è limpidamente espresso Sapelli, in una trasmissione televisiva e poi in altri interventi: la politica economica è materia non delegabile in toto alla Ragioneria generale dello stato. Punto. Sono completamente d’accordo. In linea anche con quanto sostenuto da Sapelli nel saggio L’inverno di Monti, che dovrebbe essere studiato a fondo, anche alla luce di quanto avvenuto a partire dall’esito delle ultime elezioni politiche. L’attuale governo, che sta lavorando con quel mix di ragionevolezza ed etica della responsabilità necessarie, è figlio della crisi descritta in quelle pagine.
Ecco, questo è lo scenario, che non fa decadere l’idea-forza di uno stato sanamente imprenditore, ma costringe quest’ultima a purificarsi da scontatezze e determinismi dovuti anche soltanto allo stato di necessità attuale, perché la partita è stata, è e sarà, durissima su questo versante. Perché le élites che si sono impossessate della macchina burocratico-statuale, del leviatano minore ma non per questo meno funzionante rispetto a quello del tempo che fu, non mollano e non molleranno la presa sulla stanza dei bottoni e ciò non per cattiveria congenita, figuriamoci, ma per oggettiva funzione dedicata alla sopravvivenza individuale e strutturale di catene di comando solidamente fondate e corroborate in decenni di “manovalanza” interna.
È legge di natura che i patrimoni conquistati a forza di sudore e sacrifici non si gettino alle ortiche, anche se a richiederlo fosse l’urgenza della crisi o altra oggettiva e imprescindibile ragione. Tra parentesi: questo percorso di crescita ipertrofica di questo genere di razza padrona tecno-burocratica è fonte che alimenta una nuova specie di nichilismo, il tecno-nichilismo. Ma su ciò, alla prossima puntata.