L’amico americano c’è: Enrico Letta è tornato da un G8 pressoché inutile in Irlanda del Nord, con questa unica certezza. L’invito alla Casa Bianca dimostra che Barack Obama ancora una volta è pronto a un’apertura di credito verso il governo italiano, come già aveva fatto con Mario Monti, ma guai a illudersi che sia un assegno in bianco. Lo ha fatto capire chiaramente il consigliere della Casa Bianca Ben Rhodes. Gli Stati Uniti chiedono all’Italia un coinvolgimento in Libia per “aiutare le forze di sicurezza”, un appoggio in Siria (le truppe italiane del resto sono in Libano), un sostegno nella trattativa sull’area di libero scambio tra Ue e Usa, insomma vogliono che Roma sia protagonista attiva nell’area calda del Mediterraneo e un solido alleato atlantico.
Sul piano economico interno, Rhodes ha parlato in modo chiaro: il governo italiano deve realizzare il consolidamento delle finanze pubbliche e le riforme strutturali per aumentare la competitività. Non l’austerità senza sviluppo, ma il rigore con la crescita. Si sa che gli americani non stanno con i tedeschi, anzi si deve ai ripetuti interventi degli Stati Uniti nel 2010 e 2011 se la Grecia sta ancora nell’euro e se l’Italia, sia pur messa all’angolo, è rimasta in gioco. Sono dollari quelli che la Bce ha preso in prestito dalla Fed quando doveva sostenere le banche europee rimaste all’asciutto. E parla inglese l’interventismo di Mario Draghi, che anche per questo ha suscitato l’irritazione teutonica.
La carta americana è per l’Italia un vero e proprio asso nella manica. In Europa, del resto, siamo soli, non v’è da farsi illusioni. Gli spagnoli non saranno mai veri alleati, anche loro subiscono il fascino/ricatto della Germania. Quanto a François Hollande non romperà l’asse renano, tutt’al più cercherà di allargare la riva francese. La Gran Bretagna è fuori dalla partita geopolitica che si gioca sullo scacchiere continentale. E l’Italia ha un solo vero alleato: Washington. Vedremo se il governo Letta saprà sfruttare questa chance. Certo è che non può farlo se non avrà compiuto quel salto che tutti ancora attendono.
“La luna di miele sui mercati finanziari per i paesi ad alto debito e bassa crescita sta finendo”, sostiene Stefano Micossi. I tassi a lungo termine sulle obbligazioni greche sono risaliti sopra il 10%, quelli portoghesi al 6,5%, quelli spagnoli e italiani verso il 4,5%. Passata la sbornia delle politiche ultra-espansive, i mercati ricominciano a guardare le variabili economiche fondamentali, e i conti non tornano. Le misure di sostegno europeo sono piccola cosa; di una vera significativa azione comune, neanche a parlarne. Anche perché c’è una incompatibilità di fondo: “Per aggiustare il debito, i paesi della periferia hanno bisogno di inflazione, ma per recuperare competitività rispetto alla Germania hanno bisogno di deflazione interna”.
Il decreto “del fare” è pieno di buone cose, ma si caratterizza più per quello che non c’è. A cominciare dal taglio della spesa pubblica. È difficile e doloroso, un po’ come ogni drastica cura dimagrante, tuttavia, davvero non si può fare niente? Su 600 miliardi di spesa corrente al netto degli interessi, scrive la relazione Giarda, le pensioni rappresentano il 33%, i trasferimenti alle famiglie il 9,8%, quelli alle imprese il 4% (sono poco meno di 19 miliardi, tutto compreso, cioè anche alle aziende pubbliche come le ferrovie). Il 45,3% è fatto dai costi di produzione dei servizi pubblici (scuola, sanità, difesa, giustizia, polizia, ecc.). Ebbene, essi sono aumentati molto più dei costi dei beni privati.
L’Istat ha elaborato anche una stima: se la dinamica dei costi pubblici e privati fosse stata la stessa, lo Stato avrebbe risparmiato ben 73 miliardi di euro. Altro che appannaggio dei parlamentari. Questo è il formaggio nel quale si annidano i topi, grandi e piccoli. Nessun governo ha avuto il coraggio di metter mano a questa inflazione dei costi pubblici. Ogni finanziaria ha sempre dato per scontata la spesa storica. Il primo ad aver interrotto la sequenza è stato Giulio Tremonti con i tagli lineari che gli sono costati la testa.
Dunque, è possibile trovare gli 8 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. Una scelta indispensabile perché anche attraverso le aliquote delle imposte indirette si svolge nella stessa Unione europea una sorta di concorrenza fiscale. L’Italia con il 21% è già nella fascia alta (ci supera la Danimarca al 26%, ma la Francia e la Germania hanno un’Iva meno cara). Dunque, un rincaro avrebbe l’effetto perverso di aumentare l’inflazione e restringere un mercato interno già inaridito.
Certo, la questione fiscale riguarda soprattutto le imposte dirette e in particolare quelle sul lavoro, tuttavia anche qui bisogna ragionare bene sul da farsi. Gli imprenditori chiedono un taglio del cuneo fiscale. L’esperienza del governo Prodi non depone a favore di questa ipotesi: che fine hanno fatto i sei punti ridotti nel 2006, quindi prima della grande crisi? Quanti posti di lavoro ha creato quel beneficio ai profitti e (in parte minore) ai salari? Il ministro dello sviluppo Flavio Zanonato davanti alla Confesercenti ha parlato di ridurre l’Imu per i piccoli imprenditori. Si va avanti ad annunci e improvvisazioni. Ha ragione Fabrizio Saccomanni, titolare del Tesoro, che vorrebbe una riforma organica: non si può continuare con continui ed erratici mutamenti del sistema fiscale che, invece, dovrebbe essere il più semplice, chiaro e stabile possibile (una delle condizioni, tra l’altro, che chiedono gli investitori americani per mettere soldi nel sistema Italia).
Un’altra lacuna significativa riguarda le liberalizzazioni. Il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, ha detto che poste, ferrovie, assicurazioni, elettricità, grandi servizi di rilievo strategico, non sono ancora concorrenziali. Con costi enormi: le tariffe Rc auto sono più care dell’80% rispetto a quelle tedesche, le bollette elettriche sono 30% più care della media europea (altro che i pochi risparmi previsti nel decreto del fare). Queste sono le grandi riforme mancate anche dal governo Monti. E qui, invece, il governo Letta non dice nulla. Come mai? Eppure ha una maggioranza più ampia di Monti. Chi resiste? Il Pd, il Pdl? Letta li sfidi sulla pubblica piazza: si assumano la responsabilità, di fronte ai propri elettori, di difendere le compagnie di assicurazioni o gli industriali elettrici.
La carta americana e la carta delle riforme, dunque, vanno di pari passo. L’Italia dovrebbe giocarle nel Consiglio europeo di fine giugno, dove non può né limitarsi a battere i pugni, né piagnucolare sulle pene che scelte sbagliate dell’Ue ci hanno imposto. In entrambi i casi avremmo ragione, ma otterremmo l’effetto contrario. Né si può aspettare le elezioni tedesche di settembre nella speranza che il nuovo governo cambi linea. Intanto è probabile che la Cancelleria resti alla Merkel e poi la linea della Spd non è di abbandonare l’austerità, ma di gestirla in modo più morbido. A differenza di Schroeder nel 2003, Letta non ha una Agenda 2010 per giustificare il superamento dei limiti del 3% al deficit pubblico. Di qui a una settimana, il governo non ha in programma nulla di realmente nuovo (anche sul mercato del lavoro si prevedono solo degli aggiustamenti). Ma non è mai troppo tardi per rimediare.