Che le agenzie di rating non siano il Vangelo è cosa nota fin dai tempi ingloriosi dei subprime, ma questa volta l’allarme è fondato e lanciato con anticipo: la Cina traballa paurosamente. Il direttore della filiale di Pechino di Fitch, Charlene Chu, non ha dubbi: «Il modello di crescita basato sul credito sta chiaramente andando in pezzi. C’è il rischio di un deflazione in stile giapponese dovuta a un problema di enorme sovra-capacità. Inoltre, non c’è alcuna trasparenza nel sistema bancario ombra e il rischio sistemico sta salendo. Non abbiamo idea di chi presti denaro, di chi lo prenda in prestito e tantomeno della qualità degli assets». Eppure il dato delle sofferenze bancarie direbbe il contrario, visto che è solo dell’1%, ma questo indicatore non offre più alcuna fiducia: trust, fondi, veicoli offshore e altre forme di prestito non regolamentato pesano ormai per la metà del nuovo credito generato.
E quando si è in situazioni simili, non significa niente dare vita a off-load di asset tossici, lo si può fare in maniera industriale. Il problema è che l’esposizione bancaria alla proprietà, semplicemente, non è a bilancio come proprietà. I cosiddetti trust products, un segmento del sistema bancario ombra, pesano ormai per 1,4 triliardi di dollari e giorno dopo giorno arrivano notizie sempre meno incoraggianti. La scorsa settimana vi ho già raccontato di come la Bank Everbright sia andata in default tecnico su un prestito a breve, mandando lo Shibor sulla luna e segnalando quindi un prosciugamento della liquidità: e come sempre accade, gli stress vengono generati nella periferia, ma poi si propagano verso il cuore, come ci dimostrano i continui default dei trust products.
I tassi interbancari a breve sono saliti già di 200 punti base, portando gli interessi per un prestito a un mese o meno al record dell’8%. E se lo Shibor continuerà a salire, gli effetti saranno a cascata sulle banche e danneggeranno la crescita sul finire di quest’anno, con conseguenze sul prezzo delle commodities e dei mercati emergenti globali: non a caso, quasi tutte le banche d’affari e anche il Fmi hanno rivisto al ribasso le stime del 2013 per la Cina, attorno al 7,7%. Inoltre, Fitch mette in guardia sul fatto che i prodotti di gestione del patrimonio, 2 triliardi di dollari, in realtà altro non siano che «un secondo bilancio nascosto delle banche, creati per evitare i controlli dei regolatori riguardo gli eccessi». Insomma, siamo di fronte a una Northern Rock, a una Lehman Brothers all’ennesima potenza, visto che metà di quei prestiti devono subire il roll-over ogni tre mesi e un altro 25% ogni sei: e quando i mercati di capitali si congelano, le liabilities a breve termine diventano armi di distruzione di massa.
Certo, la Banca centrale cinese ha obbligato le banche a mettere da parte riserve per oltre 3 triliardi di dollari, quindi un cuscinetto che può essere schierato a difesa degli istituti in caso di crisi, ma questo potrebbe non essere sufficiente, dato il livello spaventoso del boom del credito, passato da 9 a 23 triliardi di dollari dal 2008 a oggi. In cinque anni, la Cina ha replicato l’intero sistema bancario commerciale statunitense. La ratio credito/Pil è salita di 75 punti percentuali al 200%, cinque volte la crescita degli Usa nei cinque anni precedenti la bolla subprime o quella giapponese pre-crisi del Nikkei nel 1990.
A Fitch non hanno dubbi: «Questo va oltre qualsiasi cosa abbiamo visto finora in una grande economia. Non sappiamo come potrà andare a finire, i prossimi sei mesi saranno cruciali. Il problema, poi, non è soltanto di tenuta del sistema bancario o delle sue conseguenze sistemiche, visto che lo Stato ha parecchie armi dalla sua parte, ma cosa questa dinamica significa per la crescita e per i rischi sociali e politici a essa connessi». Non sono del tutto d’accordo: lo Stato non può più agire come fece sul finire degli anni Novanta, anche perché con il credito al 200% del Pil, il numeratore cresce a velocità doppia del denominatore. Di più, come dimostra questo grafico, la Cina ha a che fare con un moltiplicatore keynesiano fatto in casa.
Ovvero, per quanto il politburo abbia continuato a iniettare liquidità su liquidità nel settore privato – di fatto la fonte primaria della crescita cinese – l’aumento incrementale del Pil ha assunto un trend sempre più basso. Certo, non siamo ai livelli degli Usa, dove grazie alla Fed il moltiplicatore è negativo: qui ci sono ancora flebili reazioni del Pil agli impulsi del credito, ma, da oggi in poi, ogni successiva risposta del Pil sarà sempre più debole, anche se – come apparirebbe normale – le iniezioni di liquidità diverranno sempre più grandi. Ma ieri, con una mossa a sorpresa, la Banca centrale cinese non solo non ha pompato liquidità nel sistema, ma ne ha drenato dal mercato 2 miliardi di renmibi, circa 325 milioni di dollari, una scelta che può avere un’unica spiegazione: si vuole mandare un segnale di allarme alle banche commerciali e agli emittenti credito, facendo loro capire che l’espansione incontrollata del credito, soprattutto attraverso il sistema bancario ombra, non verrà conformata. Ovvero, la Banca centrale non si lancerà in operazioni espansive, in un offsetting di Stato.
Insomma, l’obiettivo pare quello di voler far calare il tasso di crescita del credito dall’attuale 22-23%, al 17-18%. Il rischio? Un deleverage disordinato nel mercato interbancario. C’è però da ricordare una cosa, ovvero le sterminate riserve di valuta estera cinesi, cresciute del 721% dal 2004 a oggi (quelle di Brasile, Russia e India sono cresciute insieme nello stesso periodo “solo” del 400%) e in grado, per capirci, di comprare le riserve auree ufficiali di tutte le altre banche centrali: parliamo di 3,4 quadrilioni di dollari. Insomma, un cuscino non da poco che potrebbe essere stato impiegato, in parte, proprio nell’acquisto di oro: alcuni analisti pensano che in autunno la Banca centrale cinese fornirà i nuovi dati sulle riserve auree e si attendono un aumento da 1,054 tonnellate a una cifra compresa tra 2mila e 3mila tonnellate. Ma l’economia reale rischia di trasformarsi in una brutta gatta da pelare anche per un colosso come la Banca del Popolo.
La ratio del servizio del debito per le aziende cinesi ha raggiunto il 30% del Pil, tipica linea di demarcazione delle crisi finanziarie e molte di loro non saranno in grado di ripagare né gli interessi, né il capitale. All’orizzonte si staglia un “Minsky Moment”, ovvero quando la piramide del debito collassa sotto il proprio peso: insomma, la palla di neve del debito sta rotolando e diventando sempre più grande, ma senza contribuire all’attività economica reale. Le misure prese dalle autorità negli ultimi tre mesi hanno raggiunto la massa critica, tanto da aver già fatto partire un deleveraging nel settore bancario. Ma la restrizione della liquidità può però essere molto dannosa per un’economia molto soggetta alla leva come quella cinese.
In molti pensano che nella seconda metà di quest’anno le autorità taglieranno prima i tassi di interessi e poi le ratio di riserva bancaria, ma restano i numeri con cui fare i conti: il credito totale nel sistema finanziario cinese è al 221% del Pil, cresciuto di otto volte in dieci anni e soltanto quest’anno le aziende cinesi dovranno ripagare interessi per 1 triliardo di dollari. Quindi, moltissima della liquidità non serve alle aziende per finanziare produzione ma per ripagare i debiti.
È di tre mesi fa, d’altronde, la notizia del primo grande default su proprie obbligazioni di un’azienda cinese, il gigante dei pannelli solari SunTech, incapace di ripagare 541 milioni di notes in scadenza il 15 marzo, dopo quattro trimestri consecutivi di perdite. L’abbassamento dei prezzi e lo squeeze sui profitti non sono bastati all’azienda leader al mondo nel suo settore, un precedente che ora vede molte altre ditte incapaci di rinegoziare le loro liabilities e ottenere flessibilità ulteriore dai propri creditori. A queste criticità si unisce anche il timore per il massiccio esodo di denaro dal Paese in caso la Fed decidesse di rallentare il programma di stimolo e il dollaro si rafforzasse, un qualcosa che già si sta materializzando in sedicesimi, visto che al 5 giugno scorso il rimpatrio di capitali esteri dagli equity funds cinese è stato al livello più alto dall’inizio del 2008, mentre quelli dai fondi di Hong Kong addirittura da dieci anni.
Oggi poi verrà reso noto l’indice flash Pmi di Hsbc riguardo l’attività economica cinese, con la quasi totalità degli analisti che prevede un ulteriore rallentamento dell’attività manifatturiera nel mese di giugno. Le attese parlano di un calo dell’indice a 48,7, in ulteriore peggioramento dal 49,2 di maggio e in discesa da sette mesi di fila: ogni dato sotto il 50, significa contrazione. Si teme poi la conferma del rallentamento dei consumi interni e l’outlook sulla domanda, colpita anch’essa dalla poca propensione alla spesa dei cinesi, un dato confermato anche dal calo dei prezzi alla produzione, scesi del 2,9% a maggio rispetto a un anno prima e in aumento dal -2,6% di aprile. Come nel film “Tremors”, i guai arrivano da sottoterra, invisibili.
P.S.: Piccolo aggiornamento sulla situazione del’eurozona. Martedì il presidente di Cipro ha gettato la maschera e ha chiesto di rivedere il piano di salvataggio dell’Ue, visto che le condizioni dell’economia reale e del sistema bancario non permettono a Nicosia di raggiungere gli obiettivi prefissati. Strano, chi l’avrebbe detto? Sicuramente la Merkel, in piena campagna elettorale, accetterà di buon grado la richiesta. E l’Italia? Sempre meglio, come confermava sempre martedì il bollettino mensile dell’Abi. Ad aprile lo stock lordo delle sofferenze bancarie ha toccato la vetta record di 133,3 miliardi, in aumento di 3 miliardi dal mese precedente e di 24,3 miliardi dall’aprile 2012, un bel +22,3% anno su anno. Insomma, una simpatica traiettoria spagnola come vi dico da settimane e settimane.
Di più, le sofferenze nette rapportate a capitale più riserve (ovvero quelle sulle quali le banche non hanno ancora messo coperture a bilancio) stanno salendo al ritmo di oltre il 30% l’anno, mentre le sofferenze lorde sul totale degli impieghi sono ormai sopra al 7%. Toccata quota 10%, la Spagna è dovuta andare a Bruxelles con il cappello in mano. E proprio la Spagna ci regala la perla della settimana, come ci mostra questo grafico: le due righe marroni di intensità diversa mostrano le traiettorie pressoché identiche di tasso di disoccupazione e livello delle sofferenze bancarie, mentre quella verde rappresenta lo spread dei Bonos. Che dire, più disoccupati e più banche in malora sono la nuova ricetta per finanziarsi sul mercato a costi ridotti…