Infuria il dibattito sull’Iva. Dopo l’Imu, è diventata la nuova battaglia del Pdl che minaccia di far saltare il banco se non dovesse vincerla. Ma il governo continua a rimanere sulle posizioni di sempre: l’incremento dell’imposta sul valore aggiunto, al limite, si può rinviare. E, al massimo, di un mese. Di tre, sarebbe già molto più complicato. Semplicemente, non ci sono i soldi per scongiurare l’aumento di un punto. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, da sempre fautore dell’impossibilità di evitare l’aumento, ha fatto presente che da Bruxelles non vogliono sentire ragioni: i saldi dovranno rimanere invariati. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università D’Annunzio di Pescara.



Come giudica la discussione sull’Iva?

In una fase di grave recessione di tutta l’attività economica e in particolare dei consumi abbiamo l’assoluta certezza che l’aumento delle aliquote sarà controproducente come già lo è stata in passato, e che diminuirà il gettito. Nel momento in cui si dice che l’economia va rilanciata, parlare di una misura che contribuirà ad alimentare la stretta recessiva, è una perdita di tempo.



Su cosa dovrebbe vertere il dibattito?

Di problemi strutturali e congiunturali l’economia italiana ne ha tanti, riconducibili sia al cosiddetto lato dell’offerta (efficienza della pubblica amministrazione, delle infrastrutture, ecc…) sia a quello della domanda, tra cui va annoverato, anzitutto, la politica del cambio, ovvero il fatto che l’euro ci obbliga ad avere una moneta troppo forte. Il che distrugge la domanda da parte dei mercati esteri. Mi pare significativo che le forze in campo, dopo essersi messe insieme al grido di “salviamo il Paese”, abbiano fatto scattare il gioco dei veti incrociati, iniziando a discutere solamente di cose futili. Effettivamente, persiste la volontà di continuare a non porre seriamente la questione della nostra partecipazione all’Unione Europea e all’Eurozona.



Secondo lei perché?

Perché si teme di dover pagare un costo politico troppo alto: entrammo nell’euro nella convinzione che saremmo diventati più ricchi. Tutte le forze erano d’accordo. In realtà, ci siamo impoveriti. Chi avesse il coraggio di dire come stanno le cose, e che in realtà le andarono in maniera decisamente diversa da quello che ci si aspettava, si prenderebbe, elettoralmente, una pesante batosta. Siccome l’orizzonte della politica è il brevissimo termine, i problemi di struttura saranno sempre rinviati; e quello dell’euro, ovvero la modalità con cui stiamo in Europa, è un problema strutturale fondamentale.

 

Cosa dovremmo fare?

A Bruxelles sanno che sarebbe necessario suddividere l’Eurozona in due. Credo che alla fine ci arriveremo. Si può riflettere sul fatto che se un Paese esce dall’euro, tornando ad una valuta forte, genererebbe meno panico nei mercati. Se la Germania uscisse verso il marco non sarebbe una cattiva idea.

 

Considerando i timori della politica di cui lei parla, su cosa potrebbe, realisticamente, concentrarsi il dibattito interno al governo?

Oggettivamente, i gradi di libertà del governo sono decisamene pochi. Anzitutto, perché non è riuscito a contrattare con l’Ue margini di rientro dal deficit eccessivo più favorevoli all’effettuare politiche espansive. Considerando i vincoli che tutti ormai ritengono assurdi, ma che nessuno mette in discussione per non pagarne i costi politici, siamo condannati allo stallo. E’ questa la ragione per la quale Saccomanni insiste nel dire che di soldi non ce ne sono. Il fatto che il governo non sia politicamente coeso, infine, non facilita il compito.

 

(Paolo Nessi)

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