Questo articolo è diviso in due puntate (la prossima verrà pubblicata giovedì) e ha come scopo non solo quello di dimostrare che la politica della Fed ha distrutto i mercati e che, se non si sarà dei premi Nobel nel cercare una via d’uscita con una tempistica appropriata, il peggio deve ancora venire. No, vuole anche dimostrare come gli Usa stiano usando la minaccia di fine del programma di stimolo per schiantare tutte le economie che parevano in grado di minacciare il dollaro e il predominio economico-finanziario statunitense, insomma creare il deserto per essere gli unici sopravvissuti al day after della liquidità senza fine.
Ora, vediamo di chiarire un concetto prima di essere frainteso: il livello di repressione posto in essere dalle autorità turche è inaccettabile. Detto questo, il premier Erdogan, in questi giorni impegnato in adunate oceaniche a difesa del suo governo, ripete come un disco rotto la sua accusa verso «le lobbies dei tassi di interesse che manipolano i giovani per destabilizzare economie emergenti che stanno disturbando gli interessi consolidati del mercato». Ovvero, il dollaro. Io non ho alcuna prova relativa a una manina statunitense dietro le proteste e nemmeno mi interessa cercarla, ci sono però dei dati di fatto inoppugnabili: in tre settimane quella che era una delle economie più vitali e con tassi di crescita maggiori è andata a schiantarsi. Lo dicono i crolli della Borsa, l’andamento della lira turca, il cds ai massimi e i tassi di interesse sovrani in costante aumento.
E la Turchia non è la sola a pagare questo prezzo alla crisi, essendo tutti i mercati emergenti in guai grossi. L’outflow di capitali dai debt funds di quei paesi è infatti accelerato per la terza settimana consecutiva e per un unico motivo: il timore degli investitori per la fine o il rallentamento del Qe da parte della Fed, di fatto erodendo la domanda per gli assets dei paesi emergenti. Ora, come vi ho già detto, non penso che la Fed fermerà a breve il programma di stimolo, poiché aumentando i tassi schianterebbe l’agenda economica di Obama contro il muro del servizio del debito, ma non importa cosa farà Bernanke, conta ciò che i mercati percepiscono. E prezzano, a prescindere da quando e se avverrà il tapering della Fed.
I fondi dedicati al debito di paesi emergenti, tracciati da Epfr Global, hanno subito redenzioni da parte degli investitori per 2,6 miliardi di dollari al 19 giugno scorso, quindi prima del discorso di Bernanke che ha mandato i mercati all’inferno giovedì scorso. L’outflow medio nelle ultime quattro settimane è stato di 1,73 miliardi di dollari, il più grande da quando vengono monitorati questi dati. Per Robert Steward, gestore obbligazionario per i paesi emergenti a JPMorgan Asset Management, «siamo in una fase di transizione. Gli investitori stanno facendo i conti con il ritiro della liquidità in eccesso fornita dalla Fed e con le sue implicazioni sugli investimenti. E come al solito, i mercati non amano i cambiamenti, quindi tendono a reagire esageratamente in maniera volatile».
Il rendimento dell’indice Embi Global per i bonds dei mercati emergenti internazionali è salito a oltre il 6% lo scorso giovedì per la prima volta dal gennaio 2012, spedendo ai minimi storici proprio la lira turca e la rupia indiana, ma non risparmiando nessun’altra nazione emergente. I fondi equity che investono in mercati emergenti hanno vissuto un outfow di oltre 3,4 miliardi di dollari, con le Borse di quei paesi che continuano ad andare in underperformance contro quelle dei paesi sviluppati. L’indice Ftse Emerging Markets ha perso il 15% nell’ultimo mese. Alcuni investitori si dicono certi che si tratti di turbolenze transitorie, dati i fondamentali economici e finanziari di quei paesi e il fatto che, nonostante nell’ultimo anno le cifre macro siano deteriorati, sia a livello di budget che di debito i paesi emergenti stanno meglio di molti occidentali. Infatti, per Andreas Utermann, capo ufficio investimenti di Allianz Global Investors, «questa è un’opportunità di acquisto. Questo è un rallentamento ciclico, ma la storia di crescita di quei paesi rimane intatta».
C’è però il rovescio della medaglia. Una larga parte del mondo in via di sviluppo è diventato con il tempo sempre più dipendente dagli inflows di investitori internazionali per tamponare i deficit di budget e di conto corrente: se la sell-off continua e anzi si intensificherà questo andrà a influire molto negativamente sul dato di crescita anche dei paesi emergenti più sani. Non a caso, Deutsche Bank ha tagliato le sue previsioni economiche sui paesi emergenti come insieme dello 0,6% al 4,9% quest’anno, con Russia, Brasile e India che hanno subito le revisioni al ribasso più nette.
E che qualcosa stia per succedere lo dimostrano anche la fuga di capitali dagli Etf su equity dei paesi emergenti, visto che a febbraio gli outflows avevano toccato quota 25 miliardi di dollari, dato che mostra come i due terzi degli inflows garantiti dal terzo Qe del 13 settembre 2012 abbiano spiccato il volo per tornare a casa. Di più, da quando è iniziato il Qe1 all’inizio del 2009, gli Etf su equity di emerging market avevano registrato inflows totali per 116 miliardi di dollari fino a febbraio scorso, quindi il 21% di quel totale ora è stato spazzato via.
Non va meglio per gli Etf su obbligazionario di quei paesi, il cui outflow è stato di 1,6 miliardi di euro nell’ultimo mese, dai picchi di maggio, ovvero un terzo dei precedenti inflows dall’inizio del Qe3 è stato ritirato. Se invece, anche in questo caso, calcoliamo gli inflows dall’inizio del Qe1 all’inizio del 2009, abbiamo un totale di 18 miliardi di dollari fino a metà maggio, quindi un 9% è tornato a casa. E non è questione da poco. La forte domanda di debito dei paesi emergenti negli ultimi tre anni ha reso molto semplice per il settore corporate, le aziende, di quelle nazioni emettere debito per finanziarsi: il problema è che grosse emissioni obbligazionarie si tramutano facilmente in debolezze quando la domanda rallenta, facendo emergere rapidamente un forte sbilanciamento tra domanda e offerta.
Se quindi prosegue la fuga dei capitali di investitori esteri, la creazione del credito nei paesi emergenti potrebbe rallentare pesantemente, andando a colpire la crescita economica. Nelle ultime settimane, i dati ad alta frequenza sulla fornitura di debito corporate di paesi emergenti hanno mostrato una netto declino. Ma la fuga di capitale esteri sta influenzando anche i money markets dei paesi emergenti, visto che lo yield dell’Elmi Plus Index, una sorta di paniere ponderato dei money markets dei paesi emergenti, è salito la scorsa settimana al 5,53%, il livello più alto addirittura dall’aprile 2009, soprattutto a causa dello squeeze sulla liquidità in Cina di cui vi ho parlato la scorsa settimana e che ieri si è concretizzato con il crollo dell’indice di Shanghai e con un a dir poco preoccupante alt all’operatività di Bank of China.
Insomma, nei paesi emergenti si stanno creando i prodromi per un credit crunch e per un ulteriore indebolimento della crescita. E chi è più a rischio per questa spirale? Basta mettere in correlazione gli inflows su debito ed equities delle varie regioni tra il 2009 e il 2012 con il Pil delle stesse: è l’area della cosiddetta Emerging Europe (quella che contempla l’Est europeo ma anche Russia e Turchia, appunto) la più vulnerabile alla fuga dei capitali, visto che gli inflows cumulativi sul debito erano al 10,6% tra il 2009 e il 2012, seguita dall’America Latina con il 7,2% e infine l’area asiatica degli emerging markets con il 2,9% di inflows sul Pil.
Tutto – o quasi – per la politica volutamente opaca della Fed, la quale minaccia di rallentare gli acquisti per creare danno alle economie rivali, ma in realtà non lo fa, perché altrimenti ucciderebbe anche se stessa e l’economia Usa. D’altronde, tocca prendere atto del fatto che l’economia di mercato non esiste più. Il prezzo degli assets, qualsiasi, lo fanno le banche centrali e i fondi sovrani con le loro leve monetarie, punto. Julian Callow di Barclays ha confermato che questi soggetti stanno comprando bond AAA per un controvalore di 1,8 triliardi all’anno su una disponibilità totale di 2 triliardi, praticamente tutto: un qualcosa di senza precedenti.
Fed, Bce, Bank of England e Bank of Japan detengono 10 triliardi di dollari in bonds. La Cina e le potenze petrolifere, altrettanti. Insomma, insieme questi soggetti hanno obbligazioni pari al 25% del Pil globale. Questi soggetti SONO il mercato, per questo ogni sospiro di Bernanke sul “tapering” squassa o infiamma i mercati, così come le scelte di politica monetaria della Banca centrale cinese. Ormai siamo in un mondo in cui le opzioni dovrebbero chiamarsi “Fed Put e “Fed Call”. E a dirci come i tempi potrebbero farsi davvero bui ci pensa uno studio molto interessante, “Crunch Time: Fiscal Crises and the Role of Monetary Policy”, redatto da Frederic Mishkin, amico di Bernanke ed ex membro del board della Fed.
A suo dire, la stessa base di capitale della Banca centrale Usa potrebbe essere spazzata via più volte quando il costo del denaro salirà, con un’escalation di guai che potrebbe portarci tassi a doppia cifra entro il 2020. A quel punto, la Fed sarà obbligata a finanziare la spesa per evitare un default devastante. Il problema, poi, è che il programma di stimolo Qe non sta affatto aiutando l’economia, ma soltanto creando bolle insostenibili nei prezzi degli assets, oltre che spedire sott’acqua i fondi pensioni colpiti da liabilities sempre maggiori per i tassi a zero e, paradossalmente, portando le aziende a differire gli investimenti proprio a causa di quel diluvio di soldi.
La stessa Banca per i regolamenti internazionali ha scritto chiaro e tondo che il Qe non sta servendo e crea più danno che utile, palesando il rischio di perdite miliardarie a causa dei tassi in crescita e di una nuova crisi bancaria globale. Se il rendimento medio sale di 300 punti base, ci saranno perdite solo sulle securities emesse dal Treasury Usa pari a un triliardo di dollari. E il rendimento del decennale Usa in due mesi ha preso quasi 90 punti base, salendo ieri al 2,6514% dal 2,51% della chiusura di venerdì. Per la Bri, «gli stimoli monetari hanno creato diverse categorie di problemi, tra cui l’aggressiva propensione al rischio, la costruzione di sbilanciamenti finanziari e l’errata allocazione di capitale. Le banche centrali non posso riparare i bilanci di banche e istituzioni finanziarie e non possono garantire la sostenibilità delle finanze fiscali».
Viene da chiedersi perché la Bri parli solo ora, ovvero dopo aver lasciato che le banche centrali iniettassero negli ultimi quattro anni 10 triliardi di dollari nel sistema e ben 16 dal 2000 a oggi, un incremento del 500%, ma tant’è. Meglio tardi che mai. Ma forse è davvero troppo tardi. Una cosa è certa: la fine di questo regime di easy money avrà impatti molto più duri di quelli occorsi precedentemente negli ultimi cinquanta anni, vista la sua durata e volume. Più questi periodi di stimolo durano, più i mercati diventano dipendenti da queste politiche: per usare una metafora che circola nella City in questi giorni, un cambio di regime monetario è come scuotere un albero, non si sa mai chi o cosa potrà cadere.
Brasile, Sudafrica e Turchia sono già cadute, a causa delle politiche della Fed: chi sarà il prossimo?
(1- continua)