Come si presentano i grandi paesi al Consiglio europeo di metà anno che oggi apre i battenti a Bruxelles? Il Regno Unito con una spending review da 11,5 miliardi di sterline. La Germania con un piano di aumento della spesa pubblica. L’Italia prendendo tempo. Londra non naviga in buone acque, è in piena stagnazione (la crescita reale è inferiore all’1%), ma con un deficit pubblico al 7,5% e un debito al 108% del Pil non può fare altrimenti. Berlino, al contrario, ha un bilancio pubblico in leggero attivo e un debito sotto controllo, quindi può allargare i cordoni della borsa. L’opposizione socialdemocratica denuncia le promesse elettorali. Può darsi, certo è che se i tedeschi cominciano a spendere è un bene per tutti. Roma, invece, mostra chiaramente di non avere alcun margine di movimento.
Rinviare l’Imu sulla prima casa e l’aumento dell’Iva era in qualche modo dovuto con un potere d’acquisto delle famiglie sotto il pavimento e investimenti che sono ai livelli più bassi dal 1994. Ma il governo non ha una soluzione; promette di trovarla con la prossima finanziaria, tuttavia il ministro Fabrizio Saccomanni ripete che non c’è un centesimo in cassa e non sa come rimediare. La pars construens della politica economica (decreto del fare, semplificazioni, misure per l’occupazione giovanile) contiene una serie di misure positive, però spesso sono piccole e periferiche. Potranno dare benefici, ma non subito. Enrico Letta annuncia 200 mila nuovi posti di lavoro in 18 mesi (se tutto va bene) che non servono nemmeno a compensare la perdita di posizioni di lavoro subordinato o parasubordinato dello scorso anno (230 mila stando alle comunicazioni obbligatorie).
L’Italia soffre di due crisi che si intersecano: una crisi strutturale, di lungo periodo, che ci riporta a tutte le riforme mancate, abortite, o lasciate a metà fin dagli anni ‘90. Il debito pubblico oltre il 130% è lo specchio di questo passato che opprime il presente e ipoteca il futuro. La bassa competitività che riguarda soprattutto i servizi e l’amministrazione pubblica è la zavorra che ci tiene nella palude. Poi c’è una crisi congiunturale provocata dalla riduzione della domanda estera e dalla contrazione di quella interna. Le esportazioni finora hanno tenuto, adesso stentano. Chi lavora per il mercato interno, industria, servizi, professioni, affonda. La stretta fiscale per superare l’emergenza finanziaria del 2011 ha depresso ancor più la domanda, mentre l’abbondanza di moneta messa a disposizione dalla Banca centrale europea non si è tradotta in aumento del credito perché le banche sono troppo fragili e piene di prestiti ad altissimo rischio.
Con migliori conti pubblici sarebbe stato possibile ridurre le imposte, accrescere le spese per investimenti, ricapitalizzare le banche con l’intervento anche temporaneo dello Stato, come negli Stati Uniti o nella Svezia del 1992. Nelle condizioni attuali, il governo Letta ha scelto di rispettare il tetto del 3% al disavanzo pubblico sul Pil (di fatto rinviando il pareggio) e usare i pochi margini di manovra per pagare i debiti della Pubblica amministrazione e sostenere l’occupazione. Con la speranza di convincere l’Unione europea a chiudere un occhio se l’anno prossimo facciamo tre virgola qualcosa.
È un calcolo realistico e prudente. Ma mostra tutta la fragilità di un governo che nei suoi primi cento giorni non ha fatto nulla di sostanzioso. Per colpa dei ministri o dei partiti che lo sostengono? Una cosa è certa: la grande coalizione è nata sullo stato di necessità, ma poteva essere l’occasione per prendere decisioni che nessun partito da solo può permettersi; invece, con il passare delle settimane, è diventata la grande conservazione. Nessuno vuol turbare i propri elettori, pensando che si torni alle urne prima del previsto. Ciò vale per il Pd nei confronti della Cgil e dei sindacati o del Pdl verso i ceti medi colpiti dalla crisi come non mai, costretti spesso per la prima volta a pagare imposte sulla principale ricchezza accumulata nei decenni scorsi: gli immobili.
Il patto conservatore passa, come sempre, per il bilancio pubblico. Dal lato delle entrate non si riesce a fare nulla per riequilibrare la tassazione a favore del lavoro. Dal lato delle spese ci sono stati solo due anni “virtuosi” grazie ai tagli lineari di Giulio Tremonti il quale li ha pagati cari. La spending review all’inglese introdotta da Mario Monti ha dato finora risultati modesti e il governo Letta ne fa solo cenni fugaci. Non si sa dove recuperare 8 miliardi e ci sono 300 e rotti miliardi di spese (al netto della protezione sociale che non si può toccare in recessione). Mentre l’esborso per interessi cresce (siamo ormai vicini ai 100 miliardi annui) non solo perché aumenta il debito da finanziarie, ma perché i tassi sono in risalita. Mario Draghi tranquillizza sostenendo che per la Bce la exit strategy non è vicina. I mercati, però, vivono di aspettative: ora si attendono un rialzo e si comportano di conseguenza.
Se Letta fosse stato in grado di presentarsi a Bruxelles con un dossier pieno di cantieri aperti, anche con gesti ad alto valore simbolico come l’abolizione delle province e il taglio dei dipendenti pubblici (nonostante le urla dei sindacati), avrebbe avuto qualche carta in più con la Merkel e con Barroso. L’Italia ha molte ragioni da far valere: la Banca dei regolamenti internazionali nella sua ultima relazione dimostra che, insieme alla Germania, è stato il Paese che ha meno aumentato deficit e debito dello Stato, dalla crisi del 2008 a oggi.
Pubbliche virtù, dunque. Ma tutti lo ignorano se c’è il segno meno davanti al prodotto nazionale e gli italiani anno dopo anno si ritrovano più deboli ed emarginati. Da Bruxelles non verrà nessuna gomena di salvataggio, nessuna nave d’appoggio. Speriamo di essere smentiti, ma intanto meglio mettersi ai remi.