“Abbiamo grande preoccupazione per la disoccupazione dei giovani in Europa e dobbiamo fare di più”, dichiara Angela Merkel al Bundestag, prima di partire alla volta del Consiglio europeo. Ma nessuno s’illuda che, con queste parole, la Cancelliera voglia allargare i cordoni della borsa verso l’Europa meridionale, la più colpita dal tracollo dell’occupazione under 29. “Crescita e consolidamento – ammonisce – non sono in opposizione. E la Germania lo ha dimostrato: ha dimostrato di poter fare entrambe le cose. E continueremo a farlo nella prossima legislatura”. Il che si può leggere anche così: la ripresa dell’Italia non partirà, né potrà essere favorita più di tanto dall’afflusso di quattrini in arrivo da fuori, ma deve essere innescata da riforme interne. Certo, herr Draghi potrà fare molto per continuare ad assicurare condizioni di credito meno drammatiche per le banche italiane. E qualcosa farà anche per le piccole e medie imprese. Ma il più passa per le riforme che dovete fare voi.
Ha torto o a ragione frau Merkel? Con tutta l’antipatia che può ispirare l’austerità teutonica che tanto ha contribuito alla recessione europea, si deve da ragione alla Cancelliera. Per più ragioni. Ne citiamo un paio.
1) Per approvare, dieci anni fa, il pacchetto Schroeder (riforma sanitaria, del mercato del lavoro, della fiscalità per imprese e individui) la Germania ci mise sette mesi. Da allora c’è stata opera di manutenzione e aggiornamento di alcune regole, ma l’impianto non è stato stravolto, nonostante il cambio di maggioranza. Ogni paragone con l’Italia è assolutamente impietoso. Non solo per i tempi, ma per le modalità: le leggi tedesche, una volta approvate, corrono su binari veloci, ad alta velocità; le poche, striminzite e snaturate riforme italiane finiscono il più delle volte sui binari morti in cui vengono parcheggiate dalla burocrazia centrale o regionale.
2) Sul fronte delle entrate fiscali, nel 2007 il governo di coalizione presieduto da Angela Merkel puntò sull’aumento dell’Iva, che colpisce in egual misura merci di importazione e domestiche, per poter procedere a sgravi per le imprese con l’obiettivo, raggiunto, di rilanciare l’occupazione. Insomma, all’aumento di un’imposta che colpisce i consumi si sono accompagnate misure per rilanciare i redditi. Come è avvenuto anche in Svezia e Danimarca (Iva al 25%) o in Finlandia (Iva al 23%), ove l’aumento dell’imposta ha coinciso con uno sgravio della busta paga L’Italia ha scelto la strada diversa: rinvio dell’Iva, ma a fronte di aumenti di accise e anticipi sulle imposte di Irpef, Ires e Irap a livelli quasi onirici (il 110% di quanto dovuto nel 2014…), creando per giunta l’incubo perfetto per il contribuente, perché gli anticipi coincideranno con la Tares e il puzzle sull’Imu.
L’obiettivo di conseguire una “vittoria politica”, perché ormai la partita dell’Iva aveva assunto un forte valore simbolico per destra e sinistra, ha avuto ragione sul buonsenso: il rinvio dell’Imposta sul valore aggiunto è stato finanziato con nuove misure che peseranno sui consumi. Oltre a unafee sul sistema bancario che di certo non gode di buona salute. In altri termini, si dà per scontato che la macchina della spesa pubblica (più o meno 800 miliardi) non possa rinunciare nemmeno a un miliardo, tanti quanti ne vale il rinvio di un trimestre dell’aumento dell’Iva.
Altro paragone impietoso. Di fronte alla coerenza d’azione tedesca (e non solo tedesca) dà pessima prova di sé una politica che punta tutto sull’immagine e sulla demagogia di breve respiro. Sia a destra (dove si reclama il taglio delle tasse, ma non quello delle spese) che a sinistra, ove non si intravede una politica che avvii a soluzione il problema dei problemi, cioè il divario crescente del Clup (Costo del lavoro per unità di prodotto) rispetto ai concorrenti commerciali.
Inutile, insomma, sperare in un cambio di rotta della Germania, magari dopo le elezioni di settembre. Qualcosa, dalla Germania o dagli Usa in pieno rilancio, magari arriverà se l’Italia tornerà a offrire condizioni propizie per chi vuole investire. Ma prima dobbiamo muoverci noi. Magari in silenzio, senza bombardamenti mediatici o promesse da talk show, ma nella cornice che il professor Paolo Manasse, membro tra l’altro del think tank europeo Breugel ha esposto con lucidità in un recente seminario a porte chiuse presso il ministero del Tesoro.
Ecco le sue conclusioni: “È oggi di gran moda prendersela con Angela Merkel, Mario Monti, l’euro o le misure di austerità per giustificare la peggior recessione del dopoguerra. Ma, sebbene la violenza della crisi debba molto alle misure di restrizione fiscale, la sua durata così come le difficoltà del Paese a venirne fuori sono l’eredità di un decennio di riforme mancate nel credito, prodotti e mercato del lavoro, che hanno soffocato l’innovazione e la crescita della produttività e hanno avuto come risultato una totale divergenza tra la dinamica dei salari e quella della produttività e della domanda. In un mondo che cambia rapidamente, dove cadono sia le barriere commerciali che quelle di altra natura e i concorrenti hanno accelerato il tasso di innovazione, l’inerzia riformatrice italiana ha provocato un gap che si è drammaticamente amplificato a causa della crisi e che minaccia di avere conseguenze desinate a durare nel tempo”.
La verità, come sempre, è una medicina amara. Ma utile…